ASIAN FILM FESTIVAL 2006 – "Running wild" (Ya-soo), di Kim Sung-su (Concorso)

Una corruzione non-denunciata, sempre a margine, quasi come se il regista volesse rappresentare il marcio con i suoi stessi strumenti, le sue stesse fattezze. Sulla base degli archetipi di genere, due protagonisti – angeli contaminati, in corsa verso la morte

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Azione immotivata, spettacolo puro: così esordisce Running wild, opera prima di Kim Sung-su (allievo di Park Chan-wook) che, senza sapere neanche chi insegue chi, catapulta lo sguardo nella realtà metropolitana e incessante di Seul. In primo piano il blu, colori lividi e metallizzati, sovrapposizioni dense nel flashback. E la corruzione. Che non è denunciata, sembra sempre restare a margine, quasi come se il regista volesse rappresentare il marcio con i suoi stessi strumenti, le sue stesse fattezze – qualcosa di sordido, qualcosa che striscia, invisibile quasi sempre. Così il 'male', compravendita di dignità e anime, avanza lentamente lungo il film e si espande: dal pubblico dei media, ammaliato dal buonismo, ai media corruttibili, poi alla polizia, al sistema giudiziario, all'universo intero rappresentato. Yu Kang-jin è un mafioso che si è dato alla politica, e ricostruisce la sua immagine con il presenzialismo e le azioni di beneficenza. Con il pollice alzato dai suoi volantini di propaganda sorride beffardo ai suoi due antagonisti: Jang Do-young è il detective dai modi violenti, che vive/lavora in mezzo alla strada e non crede nei percorsi canonici della giustizia; Oh Jin-woo è il procuratore che crede soltanto nel rispetto del libro, e vuole inchiodare Kang-jin con gli strumenti che la legge gli permette di usare. Fotografati nel momento dell'accordo, i due iniziano insieme la ricerca delle prove necessarie per incriminare il boss mafioso. Le loro storie personali sono drammatiche, ma Running Wild resta in superficie, senza scavare nella psicologia dei protagonisti; allo stesso tempo, non calca troppo neanche il piano dell'azione, nasconde per quanto è possibile il dolore e la violenza: tratteggia invece poliziotto e procuratore come due archetipi. Sulla base dei cardini delle personalità di genere, Jang Do-young e Oh Jin-woo sono due angeli contaminati. La loro lotta, in cui credono davvero e ciecamente, sa già – in maniera tragica – di impossibile. Corrono con tutti loro stessi, ma verso la morte – fisica o spirituale. Alla fine sconfitti, contaminati fin dall'esordio (il fratello di Jang Do-young ha avuto dei legami con la mafia) o solo all'epilogo, quando Oh Jin-woo potrà guardare veramente in faccia, in un'aula di processo, il volto del sistema politico e giudiziario, e ne trarrà le sue conseguenze. Il tutto nel mezzo di uno sguardo che isola continuamente, senza possibilità di costruire ponti, i personaggi di fronte al gelo di una città/potere senza speranze di trasparenza.

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