ASIAN FILM FESTIVAL 2006 – "The Unforgiven", di Yoon Jong-bin

In “The Unforgiven” è la natura inerte, rallentata – eppure costantemente minacciosa – delle sequenze che prende agli occhi ed alla testa, come fossero tutte composte da una dose fissa di violenza costruita e poi puntualmente trattenuta, così che i muscoli dello stomaco si contraggono all'infinito in attesa di un colpo che però non arriva.

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E' come se ti annodasse qualcosa dentro The Unforgiven, come se le immagini serrassero decise il filo invisibile che lega lo schermo allo sguardo dello spettatore, stringendogli la gola e spalancandogli gli occhi.
Ed è un effetto che va aldilà del suo status di film "di denuncia" sull'inferno delle caserme coreane, ben oltre l'ideale compito di testimonianza che lo attraversa, una sensazione di angosciosa empatia che prescinde dall'asciutto registro documentaristico che gli dà forma.
Piuttosto è la natura inerte, rallentata – eppure costantemente minacciosa – delle sequenze che prende agli occhi ed alla testa, come fossero tutte composte da una dose fissa di violenza costruita e poi puntualmente trattenuta, così che i muscoli dello stomaco si contraggono all'infinito in attesa di un colpo che però non arriva.
E dire che – a stare ai clichè del genere – di spazio per violenze più comodamente esibite ce ne sarebbe. A fermarsi alla confezione, The Unforgiven è l'ennesima storia di amicizie soffocate nello spazio disumano delle logiche militari: un microcosmo fatto di spietate oppressioni ed ermeticamente chiuso dall'interno, dentro il quale ogni barlume di rapporto umano diventa uno scambio di solidarietà disperata, l'estremo tentativo di aiutarsi a sopravvivere.
Ma è proprio nella capacità di sottrarsi ai soliti schemi del dolorismo facile ed all'elementare contrapposizione tra buoni e cattivi che il film di Yoon Jong-bin rivela la sua assoluta straordinarietà. C'è uno scavo ulteriore che squarcia il film, uno sguardo che filtra l'immobile messa in scena e che mira alla reale complessità delle condotte umane.
Non ci sono innocenti in questo coraggioso teorema dedicato alla congenita ambiguità morale delle azioni degli uomini e delle loro tragiche conseguenze.
I volti sono tutti, contemporaneamente, artefici e vittime delle banali crudeltà del branco, tutti fautori delle stesse ferree gerarchie mentali, tutti imprigionati in un sistema di valori così spietato da spezzare il filo più sottile delle diversità e degli affetti spontanei.
A chi prova a sottrarsi non resta altro che il rimorso per non averlo fatto prima: un'insostenibile responsabilità che logora fino ad uccidere, un senso di colpa funesto e senza perdono.

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