Asian Film Festival 2007 – "Blind Mountain", di Li Yang

Con questa storia, il regista (vincitore a Berlino nel 2003 dell’Orso d’argento con “Blind Shaft”), utilizza un anomalo stile documentaristico per ricostruire fedelmente la realta’ della vita rurale cinese. Cosi’ pero’ non si e’ mai troppo liberi di uscire da un quadro teorico, limitato da un tiepido manierismo e insistente didascalia
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Bai Xuemei, giovane studentessa, e’ vittima di un traffico umano ed e’ venduta come “sposa” in un villaggio tra le montagne della Cina settentrionale, completamente isolato da tutto il resto, dove manca anche la corrente elettrica. Era in cerca di lavoro e ha ceduto alle prime promesse di un uomo invischiato in affari sporchi. Viene dapprima drogata e poi lasciata sul letto della sua futura casa. Violentata e picchiata, diviene ben presto schiava per il sesso e la riproduzione, senza alcuna possibilita’ di evadere. Dopo alcuni anni, viene finalmente rintracciata dal padre, ma e’ l’inizio di un’altra tragedia. Il film e’ ambientato agli inizi degli anni novanta ed e’ legato naturalmente al rapido sviluppo economico della Cina, in contrasto con il degrado della morale e dei valori tradizionali che rischiano lentamente un completo annullamento. Ancora di piu’ in Cina la frattura tra la societa’ modernizzata e quella arretrata si e’ ingrandita e la brutalita’ umana pare dominare incontrastata su larghe aree del paese. Il denaro e la corruzione comandano ormai ogni relazione. Alcuni anni fa, migliaia di donne e di bambini sono stati allevati e venduti, ma solo una piccola parte e’ riuscita a liberarsi e a scappare. Con questa storia, il regista (vincitore a Berlino nel 2003 dell’Orso d’argento con Blind Shaft), utilizza quasi uno stile documentaristico per ricostruire fedelmente la realta’ della vita rurale cinese. In effetti la confidenza con il documentario e’ evidente, considerando che Li Yang ne ha girati ben tre prima di passare al lungometraggio di fiction. Ma e’ cinema che sembra non respirare, asfissiato in una didascalica messa in scena. I tentativi brutali di drammatizzazione visiva e narrativa s’infrangono il piu’ delle volte contro lo spasmodico desiderio di raccontare le gabbie dell’arretratezza culturale, il riemergere di istinti naturali. Eppure, i vani tentativi di fuga della protagonista tra i boschi, le montagne circostante che mozzerebbero il fiato, il mutare delle stagioni, sono semplici supporti per lo sguardo, mai troppo libero di uscire da un quadro teorico stretto e limitato, da cui il cinema dell’estremo oriente sa tenersi spesso lontano, per giungere al culmine supremo o al senza culmine. Neanche a dire che Li Yang persegua un formalismo estetizzante e manierato (altro limite spesso del cinema dell’estremo oriente): nessun mosaico visivo o tavole pittoriche in movimento, soltanto il compitino ben fatto di un regista che corre il pericolo di essere sopravvalutato.

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