Asian Film Festival 2007 – "Family Ties", di Tae-Yong Kim

Si potrebbe tentare un esperimento: applicare una vignetta con le parole “Quando sono con te, muoio di solitudine” – da una sequenza capace di farsi strada sottopelle – sulle teste degli attori in posa, immobilizzati in un sorriso volutamente troppo allegro nel poster coreano di Gajokeui tansaeng.

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Family Ties - posterSi potrebbe tentare un esperimento: applicare una vignetta con le parole “Quando sono con te, muoio di solitudine” – da una sequenza capace di farsi strada sottopelle – sulle teste degli attori in posa, immobilizzati in un sorriso volutamente troppo allegro nel poster coreano di Gajokeui tansaeng. Sarebbe stato sufficiente questo paradosso delicato a legare le tre storie di "legami familiari", mentre si avverte invece lo sforzo immotivato del regista di far combaciare a tutti i costi tutti i frammenti delle esistenze dei suoi protagonisti, relegandoli all’interno di una scatola-trama che a ogni minuto di film sembra agitarsi e protestare per aprirsi in direzioni meno ovvie. Questi sarebbero stati comunque parte di una famiglia (la famiglia desiderata, il rifugio, quella che vogliamo disperatamente) in fondo, più grande di quella di questa commedia dolceamara, e più universale di quella coreana contemporanea, anche senza spiegazioni aggiuntive: è evidente la loro condizione morale di orfani perenni: al di là del personale abbandono subito, sono costantemente rapiti, depredati, mai al riparo, sempre esposti all’asprezza e alla tenerezza dei vincoli di sangue e a una precarietà – i loro affetti sono sempre dati per dispersi, sul punto di scomparire, fragili, anche quando sono lontanamente possibili- che è il segno più sincero di alcune vite assai diverse tra loro: Mi-ra (la sensibile Moon So-ri di Peppermint Candy, Oasis, La Moglie dell’avvocato), che assomiglia alla protagonista del manga Maison Ikkoku, una giovane donna che gestisce un’attività con la stessa ferma dolcezza con cui nasconde i suoi tormenti, accoglie come una bambina felice suo fratello, uscito di prigione, che piomba all’improvviso all’interno di una quotidianità che riserva alla speranza uno spazio tanto piccolo che occorre non pronunciarlo perché non si riduca in pezzi: ma Hyung-chul accanto a un mazzo di fiori e a una leggerezza distratta e avventata porta in dono anche una moglie molto più anziana di lui, la fumatrice invadente Mo-shin, che deve fare i conti con una vita che si indovina tempestosa, e una bambina sconosciuta; l’avvenenza e la freschezza di Sun-kyung, guida turistica che cerca una via di fuga in Giappone, sono contraddette dalle sue risate tremanti sempre sul punto di mutare in isteria e lacrime: ha bisogno di filtrare il rapporto difficile con sua madre attraverso il gioco, l’aggressività e l’istinto;  Gyeong-seok, l’adolescente dal viso intelligente e sospettoso, muore di solitudine proprio quando è più vicino alla ragazza che lo incanta, e a sua volta questa, Chae-hyun, buffa e ossessiva, cresciuta da due madri improvvisate, sembra vivere come una farfalla, tentando di ingannare l’isolamento con manovre eccentriche. Queste esistenze singolari, apolidi per forza, ci sono care, salvo il momento in cui si ritrovano in un finale ingiustificatamente virato in commedia capricciosa, e diventano, come da retorica, la “famiglia allargata”: quelli che abbiamo visto combattersi (e soprattutto combattere se stessi) si affrettano verso la conclusione di un film in un carnevale così improbabile e gioioso da impedirci di amarli anche a qualche giorno di distanza.

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