Asian Film Festival 2007 – "Lost in Beijing" di Li Yu

Pechino, metropoli di cemento in continuo divenire, è  lo specchio esatto delle trasformazioni in atto. E’ il teatro in cui si muovono personaggi in costante conflitto tra l’amor (proprio) e la prostituzione. Ma il cinema politico di Li Yu prende corpo soprattutto nelle forme, in uno stile schizofrenico, che rende il film un personalissimo “triangle”, in cui si resta smarriti

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Lost in BeijingLo sappiamo. Il Potere, in un modo o nell’altro, non rinuncia mai ad esercitare il suo controllo sull’espressione artistica. Si potrebbe credere che questo controllo sia maggiore in assenza di istituzioni democratiche, ma probabilmente è una visione consolatoria. E’ chiaro, però, che il conflitto tra l’espressione e la repressione tende a divenir più aspro lì dove la struttura del Potere è costretta continuamente a confrontarsi con le modificazioni sociali in atto. Proprio per questo la Cina di oggi diviene il banco di prova più evidente delle capacità del cinema di essere politico, allo stesso tempo specchio e “attore”. E uno dei casi più eclatanti dell’anno è sicuramente Lost in Beijing della trentaquattrenne Li Yu. Il film è stato, tra l’altro, presentato in concorso all’ultima Berlinale, ma per circolare in patria ha dovuto subire l’intervento del censore. La giovane Ping Guo (Fan Bing Bing) fa la massaggiatrice nell’istituto di bellezza gestito da Lin Dong (Tony Leung Ka Fai), marito non proprio esemplare di Wang Mei (Elaine Jin). La donna, infatti, non può avere figli e Lin Dong “si consola” con le sue dipendenti. Un giorno Ping Guo si presenta al lavoro ubriaca e viene violentata dal suo datore di lavoro. Il tutto sotto gli occhi sconcertati del marito della ragazza, il lavavetri An Kun (Tong Da Wei). Quando si scopre che Ping Guo è incinta, nasce il problema di stabilire la paternità del nascituro. Una questione che da biologica diviene ben presto economica. Il sesso e il denaro, che dominano le relazioni tra ricchi e poveri, sono i motori della storia, cioè del cambiamento. Un’equivalenza forse semplice, ma che per Li Yu diviene emblematica della progressiva trasformazione (deformazione) della società cinese, dove ai vecchi valori si sostituiscono i nuovi miti, d’importazione capitalista. E Pechino, metropoli di cemento perennemente in divenire, sventrata e violentata dai mille cantieri, diviene lo specchio esatto di questo cambiamento. La città passa dallo sfondo al primo piano. Jia Zhangke, nell’intervista rilasciata alla nostra redazione all’ultima Mostra di Venezia, sottolineava come il suo cinema raccontasse sempre di piccoli personaggi abituati a un modo di vivere antico, eppure costretti a un mondo nuovo. Li Yu, dal canto suo, osserva i suoi protagonisti in un fase ulteriore: lo “svecchiamento” nei rapporti umani è già avvenuto, ma non necessariamente si traduce in una vita migliore. Restano i sentimenti, i dolori, che riaffiorano, prepotenti, nonostante vengano messi continuamente in crisi dalla logica dell’egoismo. Come andrà a finire la partita non è dato saperlo, perché i protagonisti di Lost in Beijing sembrano in perenne conflitto tra l’amor proprio e la prostituzione. Il Potere, miope, interviene sulla storia, convinto che, per evitare il corto circuito, basti oscurare lo sguardo. Ma il punto è che il politico prende corpo innanzitutto nelle forme e Li Yu riflette le contraddizioni del suo mondo col suo stile schizofrenico, ironico e voyeur quando si attacca ai corpi e ai volti nella prima parte, romantico e meditativo nel finale. Con l’aggiunta di veri e propri squarci da clip, a testimoniare la metamorfosi della metropoli. Più che una doppia anima, un personalissimo triangle. E, come i personaggi, anche noi spettatori siamo smarriti.   

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