Asian Film Festival 2007 – "Mukshin" di Yasmin Ahmad

La regista malese torna all’infanzia di Orked, personaggio centrale del suo cinema, e parla di vacanze estive, primi amori, tenerezza e disperazione assolute. Parla di due mondi agli estremi opposti, che arrivano, per forza di cose, a toccarsi. E lascia trasparire nel suo sguardo una malinconia e un rimpianto che arrivano a ricomporsi nella consapevolezza dell’inevitabile

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MukshinAl quarto lungometraggio la regista malese Yasmin Ahmad torna, per l’ennesima volta, al personaggio centrale del suo cinema, Orked, già protagonista dei precedenti Rabun, Sepet e Gubra. Un viaggio nel tempo dedicato al ritratto delicato di una figura femminile, in cui l’elemento autobiografico diventa uno dei motori del racconto. Ahmad torna all’infanzia di Orked, ai suoi dieci anni, alle vacanze estive e ai primi turbamenti sentimentali. La sua famiglia “moderna” e allegra è un porto sicuro, anche se completamente aliena rispetta al mondo tradizionale, rigido e codificato, quindi inevitabilmente ipocrita dei vicini. Un padre e un madre innamorati e amorevoli, inseparabili, emancipati al punto da risultare stravaganti, una tata complice e premurosa. Un mondo, che sembra all’esatto opposto di quello di Mukshin, un ragazzino dodicenne con una situazione familiare precaria, abbandonato dalla madre, un padre lontano e un fratello problematico…Due estremi che non possono far altro che toccarsi, trovando il punto di congiunzione nell’estraneità al mondo circostante. Primi amori: tenerezze e disperazioni assolute. Mukhsin è un film lieve come un aquilone, quasi impalpabile, ma il cui cuore pulsante è attraversato da nervi (scoperti), vene sottili che sembrano riportare la mente a Truffaut, a quella continua lotta sospesa sull’orlo del provvisorio, del tempo, della fine. La Ahmad, al fondo del suo sguardo tenero e divertito, lascia trasparire la malinconia, brevi accenni di rimpianto, che però arrivano sempre a ricomporsi nella consapevolezza dell’inevitabilità delle cose. Una coscienza pacificata che non ha paura del piccolo, dei sentimenti minimi, anche a costo di rischiare il clichè, il simbolismo facile. Del resto si cresce tutti tra pianti e di-partite, corse a perdifiato e ritardi irreparabili, probabilmente, ma mai fatali. Ne me quitte pas…Il dolore dell’abbandono è, forse, l’unica cosa che non ci lascia mai.  

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