ASIAN FILM FESTIVAL 2018 – Il cinema degli elementi naturali

Nelle sale della Cineteca di Bologna la rassegna conferma un’immagine sulla quale sembra costruirsi gran parte del cinema orientale odierno, che preferisce l’immediatezza del simbolo all’intreccio

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Un elemento naturale, sovente allegorico, funge da tronco di molte pellicole proposte finora all’Asian Film Festival di Bologna, nelle sale della Cineteca. Un frutto, soprattutto: la mela, l’arachide. Ma anche il mare, il pesce, o un fiore. Un simbolo, insomma, un’immagine sulla quale sembra costruirsi gran parte del cinema orientale odierno, che preferisce l’immediatezza di un colore (un mare di mele rosse), di un suono (lo scrocchio dell’arachide), o entrambi (il gelsomino bianco che fruscia come carta) all’intreccio più cerebrale della storia, la quale si srotola da quello stesso simbolo.

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Si veda il film indipendente filippino Sea Serpent (2017) che parte dalle memorie personali del regista Joseph Israel Laban, sempre propenso a mostrare gli anfratti meno conosciuti del suo paese (il film si apre con l’inno nazionale diffuso in radio). Così, con fare semi-documentaristico, porta sullo schermo questa comunità di Malavoglia filippini, pieni di superstizioni, impegnati a sopravvivere affidandosi a una misera pesca su imbarcazioni in legno simili a ragni, riprese dall’alto, a ricordare quelle di continuo costruite dal naufrago del film d’animazione La tartaruga rossa (2016): come in quest’ultimo lavoro, ad essere dominante è il mare, che dà e che toglie. E stavolta, ad essere rosse, non sono tartarughe ma mele, innumerevoli, sparse in acqua e in spiaggia per via dell’affondo di un’imbarcazione che le ha perse. Quelle stesse mele che portava a casa, come regalo, un padre di famiglia, e che ora da novanta giorni è disperso in quel mare che ancora dà e che ancora toglie. Un film scuro, che si affida alla tecnica del fuori campo e che predilige la luce naturale: quella della luna, o quella delle albe livide. E scuro poiché ha un finale scoraggiante.
Altro frutto onnipresente, nel film fuori concorso Banzgi Melody, di Dasheng Zheng (2017), è quello dell’arachide, coltivato in quelle lande per la produzione d’olio. Nella Cina, soprattutto rurale, immersa nel caos agli albori degli anni ’80 per la difficile gestione del post-Mao Tse Tung, si cerca una nuova identità, difficile a plasmarsi, preparando l’esibizione di un’opera teatrale alla quale partecipi l’intero villaggio. Bangzi Melody può definirsi una dark comedy in bianco e nero che solo in poche scene si colora esclusivamente con rosso (le bandiere cinesi, ma non solo) e verde, pieno di virtuosismi e stramberie come il personaggio fondante, il matto del villaggio (un bravissimo Zhibing Li): il film di Zheng prende così le sembianze di un elogio della follia, nell’idea foucaultiana che vada riconsiderato e riascoltato il matto stesso, foriero di un linguaggio – della bocca e del corpo – atavico ed unico.

E poi c’è il gelsomino bianco, filo conduttore del dramma thailandese Malila: The Farewell Flower (2017), di Anucha Boonyawatana, che riscopre l’arte ornamentale e la cerimonia antichissima del baisri, legata a culti animisti praticati anche in Cambogia e Birmania. Un film meditativo, che rivela la pace dei piccoli gesti e che è onirico, ma con tocco leggero, in qualche punto: un amore omosessuale, la morte per cancro di uno dei due, la scelta del sopravvissuto di farsi monaco, seguendo un’antica promessa.
Altro elemento naturale preponderante continua ad essere il mare, e il pesce, in A Fish Out of Water (2017), da Taiwan, esordio di Lai Kuo-An, presente in sala: è la storia di una madre agente immobiliare che non possiede le capacità persuasive del Servillo-Berlusconi visto in Loro 2; di un suocero degente (figura ispirata al genitore del regista); di un padre che stenta con la sua bottega di ravioli. In questo contesto faticoso, coi genitori anche momentaneamente separati, si inserisce la figura del loro bambino (il pesce fuori dall’acqua), che crede di avere genitori passati, pescatori in un villaggio sul mare, e che procede alla loro ricerca. È un esordio delicato, quello di Lai Kuo-An, che si smarca anche dal suo passato di videomaker pubblicitario, apparecchiando un film semplice ma solido, dal finale apertissimo: un flashback in cui i genitori del piccolo (quelli veri e non presunti), in abito da matrimonio, vengono fotografati in spiaggia; e forse, in grembo, lei ha quel figlio che, anni dopo, ricorderà di aver avuto una famiglia felice, nel passato, nella voce della risacca.

Il contesto familiare è indagato anche in Mothers (2017), del sudcoreano Lee Dong-eun,

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intreccio complesso che guarda al ruolo di madre in tutte le sue molteplici facce, senza però l’irruenza giovanilistica di Xavier Dolan, che nel tema ci sguazza da sempre (J’aitué ma mère, Mommy): qui c’è il difficile rapporto della trentenne Hyo-jin con la madre, o chi una madre non ce l’ha (il figlio del compagno morto di Hyo-jin, che lei adotta), o chi madre non vuole essere (l’amica sedicenne del figlio adottato da Hyo-jin, che “vende” il feto). Lei stessa, la protagonista, ha subìto un aborto spontaneo. Lee Dong-eun così svela le più disparate e dolorose possibilità di famiglia, una famiglia che vede spesso azzerarsi il legame di sangue.
Famiglia strana, infine, è quella di uno dei migliori film in concorso all’Asian Film Festival, A Beautiful Star (2017) del giapponese Yoshida Daihachi, storicamente incline, con punte d’ironia, a cavalcare tematiche surreali e strampalate, tuttavia non del tutto lontane dal vero. Ispirandosi a un romanzo di finzione degli ‘anni 60, Daihachi trasferisce la storia al giorno d’oggi. Un padre scalognato lavora in televisione come meteorologo e prende troppo a cuore la questione del surriscaldamento globale, evidentemente considerato un mero slogan dai suoi superiori; legge libri sugli ufo, e comincia a credere di giungere da Marte. L’unica terrestre è la moglie, che vende acqua “miracolosa”, poiché la figlia è altresì convinta di provenire da Venere (pertanto propone un nuovo ideale di bellezza) e il figlio da Mercurio. Eppure, lentamente sembra crollare il castello di carta di questi individui che non si reputano appartenenti alla natura: gli ufo sono una fandonia e lo è anche la provenienza da altri mondi; persino l’acqua miracolosa dell’unica terrestre della famiglia si scopre come pura menzogna. A Beautiful Star è un film audace e intelligente che interroga e si interroga sui soliti temi del pianeta impazzito o del troppo controllo della tecnologia sulla vita quotidiana contemporanea. Ma lo fa con slancio fantasioso. E,in un momento, con la Sarabande di Handel come splendido sfondo.

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