ASIAN FILM FESTIVAL 2020 – Mountain Song, di Yusuf Radjamuda

Autore da tenere d’occhio, esordio al lungometraggio, lontano dal genere adolescenziale che non ammicca all’Occidente. L’Indonesia non è un satellite, ma un golfo mistico e crudele

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Madre-figlio tra le montagne di Pipikoro, Sud Sulawesi, Indonesia. In un villaggio isolato, che raggiungerlo è pressoché complicatissimo, il timido bimbo di 6 anni Gimba vive con sua madre malata. Se ti ammali sei spacciato, o quasi. Devi essere portato in discesa su una barella per raggiungere l’ospedale, con molti pazienti, come il padre di Gimba, che non sopravvivono al viaggio. Temendo di perdere anche sua madre, da allora Gimba non si è più staccato da lei. Quest’ultima, per rassicurarlo, gli insegna una canzone che avrebbe il potere di portare la calma e la felicità quando ci si sente soli. Gimba si ritira spesso in un luogo ombreggiato, da qualche parte tra i villaggi e le risaie, osservando la gente e aspettando Lara, una bambina misteriosa, che a volte appare improvvisamente dalla foresta. Esordio al lungometraggio del regista Yusuf Radjamuda, debutto da autodidatta con un impatto fortemente lirico, nominato all’Asian New Talent Award per la regia e la sceneggiatura al festival del cinema di Shanghai, presentato in concorso al World Cinema Amsterdam 2019 e all’Asian Film Festival della Casa del Cinema di Roma. Non c’è solo l’arcipelago indonesiano, tanah air kita, la “nostra terra d’acque”, come gli stessi indonesiani chiamano il loro Paese con 17mila isole allungate su poco meno di 2 milioni di kmq su cui vivono circa 270 milioni di persone.

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Non è soltanto questo, per Yusuf Radjamuda, lo sguardo da aprire sul proprio mondo riguarda anche angoli crudeli e allo stesso tempo magici, lontani ancora di più dalla realtà, che vede l’Indonesia in grande crescita economica e proiettata a divenire nei prossimi anni la sesta o settima potenza mondiale. C’è ancora un territorio isolato, stavolta non dalle acque o da spinte centrifughe, vessazioni religiose, ma è un territorio isolato perché talmente fuori dalla cosiddetta via della seta marittima, da presentarsi libero e selvaggio, fino a costituire una sorta di golfo mistico in cui risuonano le anime della natura, le distanze dello sguardo, le orchestrazioni mitiche, turbinii ancestrali dell’esistenza. Le ingerenze dell’ala più integralista mussulmana, dei cinesi, dei russi ed occidentali, sono echi lontani, echi remoti, il cinema è altrove per l’autore, da tenere sicuramente d’occhio, soprattutto se all’Indonesia si comincerà a pensare non soltanto come un Paese satellite, ma finalmente anche un Paese capace di andare oltre luminose eccezioni, regalate soprattutto da generi cinematografici più “appetibili”, quali l’animazione (Battle of Surabaya del 2015, su tutti…) thriller/horror “adolescenziali” o doc storici/culturali.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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