ASIAN FILM FESTIVAL 2020 – The Halt, di Lav Diaz

Diaz continua a riattraversare il proprio canone, quasi a costruire nuovi proclami con lo stesso repertorio personale. Alla Casa del Cinema di Roma dopo il passaggio alla Quinzaine di Cannes 2019

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Prosegue la pratica dell’ultimo Lav Diaz di ripercorrere il proprio immaginario in un’operazione di canonizzazione che sembra da un lato assestarsi sul suo status oramai comprovato di autore amato dai festival, e dall’altro quasi iniziare a costruire una sorta di archivio irrequieto, di verifica incerta dell’immaginario di appartenenza costruito sin dagli esordi, chissà quanto davvero conosciuti dai fan del periodo più “celebrato”. Come in Season of the devil, scompaiono allora le peregrinazioni erratiche e i piani fissi infiniti in favore di un recupero del Lav Diaz distopico, tono frequentato soprattutto nelle prime fasi, come si conviene attraversato e scosso da esibizioni di pinoy rock, chitarre distorte, crudeltà assortite sia di massa che su singoli corpi isterici, e istanti di sospensione che però lambiscono soltanto l’ipnosi allucinatoria dei titoli più radicali del cineasta. In alcuni momenti, i dialoghi sembrano rivolgersi agli spettatori del film (la tirata contro l’Occidente del presidente Nirvano) o parlare del cinema stesso di Lav (affetto da anosognosia come l’eroe riluttante e ipovedente Lone Eagle?): in queste Filippine del 2033 in cui non esiste più la luce del sole e la pioggia è perenne, The Halt segue ancora una volta la via dell’apologo su rivoluzioni mancate, repressione sociale e affettiva, spietata legge marziale e le ambigue posizioni di stato e religione.

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Diaz rivisita la vicenda con il filtro del contemporaneo tra onnipresenti droni di sorveglianza e schiavi umani costretti a comportarsi fingendosi intelligenze artificiali incapaci di qualunque fragilità, e indovina alcune istanze che gli sarebbero succedute (il film ha esordito alla Quinzaine di Cannes 2019) come il controllo della biopolitica (la misteriosa febbre Dark Killer che costringe l’intera umanità ad un certificato di vaccinazione per poter circolare, in realtà arma della soppressione istituzionale che sparge un gas velenoso travestito da pandemia…) e relativi complottismi (élite che sviluppano dipendenze dal bere il sangue delle vittime trucidate del popolo…). Più di tutto, l’accento veramente inedito è qui un’attenzione per gli aspetti psicologici e psicanalitici dei personaggi, con lunghe sessioni di analisi più o meno “scoperta” tra i protagonisti e diverse sequenze dedicate alla evidente follia del Presidente Navarra, tra tutti i dittatori della filmografia di Lav Diaz quello a cui viene dedicato più spazio, in un chiaro legame con le messinscene del cinema classico di satira politica sui potenti usciti fuori di testa. Il risultato rivela forse una volta per tutte come l’anima attuale della poetica del cineasta sia quella del proclama, del manifesto, della bordata enunciativa a gittata variabile.
Rimane immutata la fascinazione per l’esperienza immersiva della visione (The Halt lambisce le 5 ore): anzi, le modalità di costruzione del cinema di Lav Diaz, che ha spesso incoraggiato la fruizione frammentata e casuale, dentro/fuori, delle proprie opere, potrebbe assumere una nuova urgenza in questi tempi in cui si parla di spettacoli in sala che non possono superare le due ore per abbassare il rischio contagio tra gli spettatori, e al contempo sulle piattaforme vengono annunciati i cut estesi e integrali (con durate alla Lav Diaz!) di opere come Justice League, mentre Tarantino allunga e insieme spezzetta il suo Hateful Eight per il web. È giunta l’epoca dell’opera cinematografica freemium? Il nuovo di Lav, in Concorso a Venezia77, dura solo due ore e mezza…

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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