Assandira, di Salvatore Mereu

Fuori concorso, un film di “fatica”. Ma Mereu affonda ancora una volta lo sguardo nelle viscere della terra e con lucidità estrema squarcia i miraggi di tutto un colonialismo turistico

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Forse, e questo vale per la Sardegna come per il Sud Italia, la vera esperienza non è mai in ciò che si vede, nella dimensione puramente estetica. Né nel richiamo dell’esotico. Ma semmai nell’altra faccia nascosta e misteriosa, esoterica, nel segreto di una tradizione e di una credenza, nei silenzi che custodiscono il senso di certi rapporti, di generazione in generazione, nella crudezza delle pratiche. Sì, c’è molta antropologia in Assandira, a partire dal romanzo omonimo di Giulio Angioni, lo studioso scomparso nel 2017. Ma è un’antropologia oscura, spiazzante, assolutamente indecifrabile con la lente del nostro sguardo 2.0, ormai assuefatto a un livellamento di prospettive, alla confusione tra virtuale e reale, alle finzioni dell’immersione garantita e ipercontrollata. E il cortocircuito si innesca con la presenza enorme, assoluta di Gavino Ledda, che dopo aver subito il padre padrone, sembra dover affrontare qui la nuova tirannia dei figli, delle emancipazioni apparenti, dello sviluppo di ritorno, delle lusinghe del denaro. Una presenza testimoniale che rimette in gioco le memorie di una vita e di un’opera, i ricordi di una lingua e di una cultura che rischiano di smarrirsi.

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Assandira, “parola antica”, è il nome dell’agriturismo che viene aperto nelle terre del pastore Costantino Saru, su iniziativa del figlio Mario e della nuora tedesca. Un luogo in cui i turisti nordeuropei possono immergersi nei ritmi e nelle usanze del vecchio mondo. Ma c’è qualcosa che va storto, una tragedia su cui occorre far luce. E, a poco a poco, emergono i frammenti di una storia cupissima in cui si avvertono le fitte di desideri abortiti e deviati, i miasmi di una sessualità patologica che lascia presagire la deriva di accoppiamenti bestiali, come se quegli amplessi uomo-pecora di Padre padrone piegassero verso riti proibiti di sacrifici al demone caprone. C’è come un gorgo di dannazione, un viluppo inestricabile calato sui volti e sulle parole, al punto che fai fatica a capire qual è il punto di certe frasi, di certi gesti rabbiosi, sempre sul filo di una violenza a stento repressa. E tutto si riflette nei salti di una struttura che forse rischia di diventare un po’ troppo contorta, in un senso di fatica che si aggrappa alle evoluzioni e involuzioni noir del racconto.

Ma al di là delle traiettorie del dramma, la verità è che Mereu affonda ancora una volta lo sguardo nelle viscere della terra e con lucidità estrema, con una potenza disarmante, squarcia i miraggi di tutto un colonialismo turistico che viaggia tra nature mozzafiato, la perversa fascinazione dell’arcaico, la necessità di un divertimento impunito. E fa a pezzi qualsiasi estetica da cartolina, quella imperante di un cinema che si piega a logiche da film commission. Non c’è mai un vero campo lungo, un’immagine che si perda nelle lusinghe del paesaggio o che ammicchi al perbenismo animalista. L’inquadratura, al contrario, è sempre piena, densa, asfissiante, ammassa uomini e bestie, si apre a invasioni di campo, a irruzioni inquiete, si illumina e si oscura a intermittenza. La superficie che vorrebbe essere scintillante, si fa cupa, sporca, fangosa. Sì, è innanzitutto una fatica la vita tra i campi e i pascoli, “o sciamarro è ‘no brutto attrezzo” come mi diceva qualcuno… E perciò Assandira è un film di fatica, in cui le uniche vibrazioni di dolorosa tenerezza si aprono nelle parole fuoricampo di Costantino Saru/Gavino Ledda, un uomo che è stato abituato a non abbandonarsi agli incantesimi del desiderio e che però, perciò, riconosce ancora il senso delle cose.

 

Regia: Salvatore Mereu
Interpreti: Gavino Ledda, Anna König, Marco Zucca, Corrado Giannetti, Samuele Mei
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 120′
Origine: Italia, 2020

 

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.86 (14 voti)
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