Assassins, di Ryan White

Il doc sull’omicidio del fratellastro del dittatore coreano Kim Jong-un compiuto da due ragazze convinte di essere in una candid-camera è straordinario per la storia, meno per il resto. Al Far East

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Riassumere il soggetto del doc Assassins, di Ryan White in concorso al Far East Film Festival 2021, corre sin da subito il rischio di diventare un esercizio di brillantezza aneddotica, alla maniera del re mediatico degli storici Alessandro Barbero, e di ingabbiare così l’incredibile evento da cui prende spunto in un paradigma che se non guidato può risultare un po’ fine a sé stesso. Perché nell’omicidio di Kim Jong-nam, il fratellastro del presidente nordcoreano Kim Jong-un, messo in atto a febbraio 2017 all’aeroporto di Kuala Lumpur da due ragazze convinte di star partecipando ad un “prank camera show di una tv giapponese“, il materiale di partenza è davvero così perversamente grottesco, così oscenamente irrealistico, così gonfio di link internazionali da prestarsi fin troppo facilmente a scatola nera di quel disastro di diritti che è la dittatura del Paese del Sud-est asiatico. E il documentario del giovane filmmaker statunitense, girato a Manila con il materiale fornitogli dagli avvocati delle due giovane incriminate di aver cosparso di potentissimo agente nervino VX gli occhi della vittima, è fin troppo consapevole dell’inestimabile tesoro di significato che rappresenta questa vicenda. “L’assassinio politico più incredibile del XXI secolo” è difatti da subito mostrato nelle riprese delle telecamere del circuito di videosorveglianza dell’aeroporto, preceduto dalla strana preparazione messa in atto da Doan Thi Huong e Siti Aisyah, le due ragazze processate, e dall’ancor più inspiegabile tranquillità che le anima dopo il letale accecamento. Una vietnamita, l’altra indonesiana, entrambe hanno dichiarato con candore quando interrogate dalla polizia, che le ha arrestate appena uscite dal terminal delle partenze, di non conoscersi l’un l’altra e di pensare di far parte di un programma comico che avrebbe caricato su Youtube il video di quello scherzo innocente. Assassins trova in questa tesi difensiva, così bislacca da fare il giro della verosimiglianza e diventare vera, la sua primaria e storica ragion d’essere e da lì in poi si contenta di fornirne il classico lavoro investigativo a sostegno.

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Dopo i primi venti minuti in cui infografiche e l’intervento di un giornalista di Manila (capiamo le denunce di pedinamenti fatte da White nelle interviste e il clima di paranoia per tutto ciò che concerne la Corea del Nord ma davvero non si poteva trovare un esperto autoctono più addentro alla questione, magari esule?) contestualizzano l’assassinio di Kim Jong-nam come facente parte di un’occulta trama ordita dal fratellastro Kim Jong-un per ragioni dinastiche, il documentario si focalizza sull’annosa vicenda processuale. White si sposta dalla Malesia al Vietnam fino all’Indonesia per intervistare i coraggiosi difensori legali delle due ragazze che a più riprese fanno i nomi degli otto coreani – tra cui l’anglofono Jimmy, a dimostrazione ancora una volta della secolare sudditanza atlantica che nemmeno un’autarchia così militaresca riesce a cancellare – coinvolti nella costruzione del finto show che ha messo in moto la vicenda. La diabolica messa in scena per mesi e mesi di un programma spacciato alle due ragazze come un remunerativo diversivo per sfuggire alle difficoltà economiche serve invece da allenamento atto a massimizzare la prestazione assassina del 13 Febbraio. Così fanno una terribile postuma tenerezza le angustie di Siti Aisyah per i miglioramenti richiestile negli agguati scherzosi da fare in strada a gente comune e che invece nascondevano l’intento di creare ignare ma efficienti killer all’involontario servizio del regime.
Assassins
però piano piano abbandona questa matassa di beffardo e macabro per provare invece a tirare le fila delle conseguenze umane di questa storia. Ecco allora che la lunga parte finale fa conoscere agli spettatori le famiglie delle due giovani con interviste dove l’ovvio e giusto sollievo per il felice esito giudiziario – entrambe sono state liberate due anni dopo dalle autorità malesi, Paese dove si è svolto il processo – fa scemare il termometro politico verso basse temperature. Probabilmente frettoloso di mettere in circolo un’opera che vuole sfruttare la vicinanza temporale dell’evento e che può avere libertà di manovra dalle pastoie dei capovolgimenti trumpiani in tema di rapporti con la Corea del Nord, White finisce per non dare al suo documentario un’impronta stilistica in grado di acutizzare i cortocircuiti mediali del soggetto di partenza (la connessione col fenomeno web delle Prank-Camera ad esempio avrebbe richiesto un supplemento d’analisi) né di connotare efficacemente la vicinanza sociale tra il nostro horror vacui e quello dei giovani asiatici (appena accennata la bramosia delle due ragazze a comparire davanti uno schermo per fuggire dalla grigia quotidianità). In questo modo il documentario perde il suo potenziale concettuale per diventare una più semplice cronaca dello straordinario che si contenta di indicizzarlo piuttosto che provare a farne il fulcro di una riflessione più ampia.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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