ATLANTIDE 2008 – "A propos de nice", di Jean Vigo (Beach Movies)

La prima “tempesta” offerta dal naufragio con spettatori di Atlantide – Il vento del cinema 2008 – è una retata senza interruzioni nello spazio indefinito che sta tra presenza e scomparsa, che conduce dalla Nizza degli anni ’30 di Jean Vigo – ma potrebbe essere una città di qualunque tempo, accesa dal sole e dai protagonisti un osceno carnevale che può solo svelare quanto siano tutti votati alla morte – alla foresta in cui Jean-Marie Straub canta l’assenza, a un viaggio trasparente in battello, per chiudersi con il grido d’amore al corpo di Abel Ferrara. VIDEO: “A propos de nice”, di Jean Vigo

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Se "Nizza è una città che vive soprattutto del gioco: i grandi alberghi, i forestieri, la roulette, gli abitanti locali: tutto votato alla morte", Jean Vigo, a qualche minuto dalla fine dei 22 che svelano la città di Nizza agli occhi di uno spettatore che è come il reduce di un'operazione alla cornea trascinato all'improvviso all'esterno sotto il sole della ricchezza sfacciata e della miseria naturale, cerca il cielo e le nuvole tra gli edifici e con l'obiettivo guadagna spazio via via sempre più in alto, ma non per purificarci dalla folla che ha ripreso, dal loro riso folle e osceno: sventola infatti alberi cupi usciti da un quadro di Caspar David Friedrich, a suggerire quel senso di morte che i protagonisti delle riprese, ora ignari, ora lievemente incuriositi, sembrano non percepire, per quanto ne siano depositari, e lascia alle statue ornamentali da cimitero il monito ironico di dolersi per la condizione umana, senza risparmiare a una di esse un'ispezione ginecologica che ci fa pentire, nel caso, di averle mai potute sentire come sacre. Vigo offre pure immagini di terrore urbano – they lives eleganti vegliarde come goffi struzzi e temibili vampire in occhiali da sole che sembrano voler divorare la strada, trascinate da bastoni, cuccioli in nastri di seta e abiti tanto più neri sotto il sole nel bianco e nero accecante di Boris Kaufman, la morra dei poveri, i volti inespressivi dei camerieri, il gesto meccanico nel pulire naso e bocca di enormi maschere da parata, bianche le vele sul mare e bianchi i tennisti, anzi immacolati, il sonno pacifico dell'alta classe che sbadiglia al caffè, le medaglie dell'autorità militare che risplendono tronfie, le inquadrature che rivelano la farsesca rigidità delle loro zampe orgogliose sotto i tavoli, e soprattutto il rallentamento delle gambe nude di un gruppo di ballerine improvvisate, gioco di carnevale della carne vivente interamente prossima alla decomposizione, giorno in cui non si rovesciano effettivamente i ruoli del re e del contadino, ma solo gli edifici sotto l'occhio lucido di Vigo, che ruotano capovolti, illuminati dalla prospettiva del sarcasmo.
A seguire senza interruzioni l'anteprima Il ginocchio di Artemide (Le Genou d'Artemide) di Jean-Marie Straub (Schegge del Vaso di Pandora), proiettato a Cannes 61, e L'itineraire de Jean Bricard (qui la recensione da Cannes della doppia proiezione) canto che esplora la
natura inafferrabile della belva selvaggia che mangia il cuore dei viandanti che osano offrirsi all'amore, che può ancora tentare di descriverla e desiderare la sua apparizione, struggente dialogo che spiamo come nascosti dietro un cespuglio, nella foresta, alle loro spalle, solo i rumori del bosco a concentrare le parole. Impossibile per Jean-Marie descrivere con la sua compagna nella loro parabola di vita e di cinema, impossibile descrivere lei alla sua morte.
E in conclusione un altro viaggio: pirotecnico, vertiginoso, in un nuovo Abel Ferrara che sembra folle di gioia e disperatamente affamato di vita nel suo Go Go Tales (presentato a Cannes 60).

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