ATLANTIDE 2008 – "L'impossibilità di recitare Elettra oggi", di Roska, Manrico Pavolettoni, Dominique Isserman e Marc'O (Utopia della fine)

RoskaSofocle non abita tra gli operai della Bassa Padana e il sessantotto porta in dono pantaloni sporchi di sangue di giovanissimi abbattuti a colpi di fucile, ma anche la costante emozione di non rimettere in scena un’ Elettra già impossibile: alcuni, pure immersi nella struttura stagnante che li stringe da ogni lato, consapevoli di farne parte come piante al terreno, si sradicano dal loro passato per raccontare una stagione accesa pronta a fare di ogni suo passo un “tutto” da rigiocare nel linguaggio e nell’azione.

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Girato nel ’69, ed oltre che proiettato al festival trasmesso il giorno stesso nella notte televisiva di fuoriorario in “Naufragio con/senza spettatori” – tanto per ribadire la relatività e al tempo stesso la crucialità di tempi e spazi – L’impossibilità di recitare Elettra oggi è un intreccio di voci e documenti, insieme di speranza e di continua frustrazione, di un gruppo di persone che comunicano a tentoni, a brandelli, in un sessantotto vicino e lontano, con un intreccio continuamente spezzato di lingue diverse eppure con miracolosa fluidità: Roska, il suo compagno Manrico, Dominique, protagonisti di una stagione accesa che si nutrì di rapporti fecondi, protagonisti di un ’68 acceso a Fabbrico, soltanto un paesino della provincia emiliana, si assalgono dolcemente tra loro con la fiducia e l’accanimento della loro condizione di profughi in sospeso, fuori dalla classe operaia e da quella borghese, a disagio tra partito e una famiglia – che farne? rifiutata, osteggiata, e però dolente, luogo di affetti inaccettabili – ma è alto il prezzo per separarsene completamente, alle prese col tentativo di una creazione nuova, si dibattono nel desiderio di uscire fuori di scena come la miccia che dà fuoco all’esplosione: “fuori dall’inquadratura!” dicono le loro voci in disparte, perché perfino il controllo sul proprio film è un controllo intollerabile; e se “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone”, ha un senso, nell’azione, nell’unica arte ammissibile che è già azione, portare una Elettra tra gli operai, non un adattamento, ma una detonazione, il seme della lotta? Intanto un perfetto burocrate, due menti, collo spesso, la lingua tra i denti in un sorriso da grossa serpe autoritaria, conduce un lungo interrogatorio farsesco disseminato di Luoghi provocatori e paternalistica calma somministrata da bocca sfuggente e già bugiarda (“io ti voglio aiutare”) che tentano di fare a pezzi a forza di verbalizzazione: lo spazio di azione dei contestatori, il campo aperto, il campo preso e occupato – ma non posseduto – che può essere anche una piccola giostra in un giardino – viene etichettato come strada, luogo di un “patto con la prostituzione teso a seminare disordine nelle famiglie”; le parole vengono usate come armi mistificatrici: i contestatori sono “assassini”, e, Dominique, il viso angelico, dona semplici risposte: sono insieme ma soli, individui e gruppi che lottano per la stessa causa, troppo nota per doverla spiegare. Meno semplici, le risposte che i protagonisti di questo non-documentario danno a se stessi: si inseguono per un tempo dilazionato, che sembra la stessa giornata dal principio alla fine annodata su se stessa, interrotta dallo scorrere delle foto giustapposte – più flagranti di un filmato dei nostri tempi – di manifestanti e cariche di polizia in Piazza della Libertà a Reggio Emilia; una sovrapposizione di momenti più parlante di qualsiasi immagine in movimento; si sentono in un limbo e come tali, “vedono” in anticipo le gabbie, le contraddizioni, i limiti della loro azione come se fossero disegnati: con loro, si entra in un parco giochi per bambini costellato di segnali stradali, perché la pedagogia è stata già divorata per diventare solo ammonimento e divieto morale; e resta testimone l’immagine potente e spaventosa delle finestre dipinte sulla facciata di una casa, finzione concepita per suggerire alle anime belle l’illusione di una fuga sempre possibile per addolcire l’ombra di un controllo che è ovunque, più feroce ancora se osservato alla luce di 40 anni dopo.

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