“I banchieri di Dio” di Giuseppe Ferrara

Tentativo pseudodocumentaristico di affondare definitivamente il sogno filmico in reperto mortuario buono per una di quelle terribili serate in cui viene organizzata la visione di film dibattito nella quale si parla di tutto tranne che del film

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Il cinema non potrà mai rappresentare l’epifania del Vero. Ci andrà vicino forse, ma solo nel peggiore dei casi. Il Vero non esiste. Può esserci “un” vero, ma è un altro discorso. E non c’è nulla di peggio che veder simulare sullo schermo un’impressione di verità che invece di accarezzare l’oggetto visivo, lo soffoca nella presa mortale della ri-costruzione di un certo evento. Che lo contestualizza di forza all’interno di un orizzonte storico abitato dalla verticalità di sguardi che non potranno mai coincidere. Il sentire, il vedere, sono atti politici, non c’è nulla da fare. Giuseppe Ferrara vorrebbe fare del cinema uno strumento di rivelazione, un mezzo attraverso il quale ergersi a giudice di un evento prodotto dalla Storia, per sezionarlo, analizzarlo, smontarlo e poi ricomporlo all’insegna di un inseguimento continuo, ossessivo, mortale: quello della Verità. Il paradosso è cercare di giungere ad essa attraverso una simulazione di quest’ultima. Eppure, lo abbiamo detto, la Verità non esiste. E l’inseguirla non è nemmeno più un atto utopico, un movimento critico nei confronti di certe posizioni prese. E’ soltanto tentativo di affermare con tutta la forza possibile “uno” sguardo, “una” visuale, “una” prospettiva. Nel film di Ferrara si parla del caso Calvi. Un caso misterioso, di quelli che probabilmente non conosceranno mai la parola fine. Un banchiere uccisosi sotto un ponte di Londra, il crack del Banco Ambrosiano, una rete di sospetti e di veleni che ha portato gli inquirenti dritti dritti al Vaticano. C’è n’è abbastanza per ri-scrivere la storia degli ultimi trent’anni del nostro Paese. Ma Ferrara non si è scoraggiato. Pare che abbia dedicato tanti anni della sua vita a documentarsi e a registrare le sedute dei tribunali in cui si parlava di questo caso, ha poi ri-costruito minuziosamente come potrebbero essere andate le cose. Già come potrebbero. Eppure nella sua opera il condizionale non esiste. L’affermazione finale, gonfia di sé, categorica. Il beneficio del dubbio si riduce a roba per scolaretti. Il cinema pure. Ma in realtà non si tratta di cinema. Si tratta di un tentativo pseudodocumentaristico di affondare definitivamente il sogno filmico in reperto mortuario buono per una di quelle terribili serate in cui viene organizzata la visione di film dibattito nella quale si parla di tutto tranne che del film. Il che non ci sorprende poi più di tanto, visti i trascorsi del regista. Non era dunque lecito aspettarsi nulla di più. Ciò che non accettiamo è la manipolazione di un caso travagliato come questo per ridurre tutto quanto a livello di fantapolitica d’accatto. Qualche “avveduto” critico, parlando dell’opera, ci ha aperto degli squarci ermeneutici “illuminanti” accostandola al terzo capitolo del “Padrino” di Coppola. Si è dimenticato però che quello di Coppola è il sogno di un cinema ancora da venire. Quello di Ferrara una speculazione imbarazzante sui detriti di una Storia infilmabile.Regia: Giuseppe Ferrara
Sceneggiatura: Giuseppe Ferrara, Armenia Balducci
Fotografia: Federico Del Zoppo
Montaggio: Adriano Tagliavia
Musica: Pino Donaggio
Interpreti: Omero Antonutti (RobertoCalvi), Rutger Hauer (Cardinale Marcinkus), Alessandro Gassman (Massimo Pazienza), Pamela Villoresi (moglie di Calvi), Giancarlo Giannini
Produzione: Sistina Cinematografica, Metropolis Film
Distribuzione: Columbia Tristar
Durata: 125’
Origine: Italia

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