Banel & Adama, di Ramata-Toulaye Sy

Nell’esordio della regista francese, di origine senegalese, non si scorge una via davvero personale, oltre le convenzioni della scrittura e delle forme. In concorso #Cannes76

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Banel e Adama vivono in un piccolo villaggio nel nord del Senegal. E si amano intensamente. Un sentimento che viene vissuto in maniera profonda soprattutto dalla ragazza, Banel, legata in maniera viscerale ed esclusiva al rapporto. I due si sposano e immaginano una vita indipendente, lontana dal villaggio e dai vincoli familiari. Ma esistono delle leggi, seppur non scritte, che obbligano a delle assunzioni di responsabilità. Quando, per coronare una promessa fatta alla moglie, Adama rifiuta di diventare capovillaggio, ruolo che tradizionalmente spetta agli uomini della sua famiglia, una terribile siccità si abbatte sulla comunità.

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La Ramata-Toulaye Sy è nata a Parigi, si è diplomataa La Femis, la scuola di cinema nazionale francese. E al suo lungometraggio d’esordio, si confronta con una storia universale, buona per ogni terreno e latitudine, decidendo di ambientarla nei luoghi d’origine della sua famiglia e di usare la lingua pulaar. Al centro di tutto, il conflitto tra il sentimento e il mondo, tra la passione e le regole, tra il desiderio intimo e la dimensione pubblica. Ed è uno scontro segnato, romanticamente, da un’inconciliabilità drammatica, tutta vissuta dalla prospettiva febbrile di Banel. Che, in fondo, proietta nel rapporto d’amore un desiderio di libertà dagli stretti orizzonti del villaggio. Un miraggio di indipendenza che finisce per isolarla completamente. Ma anche il romanticismo può essere una convenzione. Tanto che emergono ben presto i limiti della scrittura di Ramata-Toulaye Sy. Qualcosa di un po’ troppo scontato e meccanico nelle dinamiche dei personaggi. Quasi un taglio di superficie, uno sguardo tardoadolescenziale che non consente troppe sfumature e complessità.

Ma le semplificazioni non sarebbero un problema, se le immagini riuscissero a suggerire altre direzioni. Ma è proprio su questo piano che la regista sembra accontentarsi di giocare su un terreno conosciuto. Basterebbero già le scene iniziali, con i due innamorati che camminano nell’erba alta, il sole di fronte, le mani che sfiorano gli steli. Già da lì si può intuire quello che verrà: i controluce, le sottolineature evocative dei momenti drammatici, i piani dall’alto che suggeriscono un estetismo un po’ di maniera. Ci troviamo di fronte a un’immagine troppo liscia, pulita, risaputa. Alla forzatura di un punto di vista fondamentalmente europeo su un’ambientazione che per forza di cose viaggia su un altro tempo e richiede altre forme. Sì, certo, tutto è corretto. Persino bello… Ma non si scorge una via autonoma, davvero personale.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.4
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Il voto dei lettori
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