Bansa, di Brillante Mendoza
Il più “sacro” dei cineasti filippini per la Pasqua di Sentieri Selvaggi, con un film ambientato tra le distese rigogliose della sua terra che riflette sull’orgoglio nazionale

Con Bansa, passato al Busan International Film Festival nel 2024, Brillante Mendoza cerca di immergesi nelle tensioni della sua terra, proprio come il suo protagonista Dao-ayen si muove tra il fiume e la vegetazione delle campagne filippine, cospargendosi di fango nel corso della missione, ricordando il Capitano Willard di Apocalypse Now. Il progetto, inizialmente pensato come un unico film di quattro ore dal titolo Bangsamoro, è stato poi diviso in due opere distinte, con il precedente Moro uscito nel 2023. In Bansa, Mendoza sceglie il punto di vista di un membro della SAF, le forze speciali della Polizia Nazionale Filippina, sopravvissuto al massacro di Mamasapano del 2015, in cui i suoi compagni persero la vita durante un’operazione militare a Maguindanao contro le milizie del fronte di liberazione islamico Moro. Una scelta che richiama la struttura narrativa speculare di Lettere da Iwo Jima e Flags of Our Fathers di Clint Eastwood, dove due film mostrano due fronti dello stesso conflitto.
Il film si apre con l’immagine di Tom Dao-ayen, interpretato da Rocco Nacino, che torna al suo villaggio accolto da festeggiamenti e onori. Ma dietro questa gloria si nasconde qualcosa che il protagonista non riesce a scrollarsi di dosso. Da qui Bansa si dipana in un lungo flashback che riporta alla notte della missione, ricostruendo passo dopo passo il fallimento che ha condannato decine di soldati a una morte inevitabile. Mendoza si sofferma sul caos dell’operazione, sulle truppe lasciate senza copertura e sulla tensione crescente, che esplode nella disperata fuga del protagonista, inseguito non solo dai nemici ma anche da coloro che dovrebbero proteggerlo.
Come già in Ma’ Rosa e Kinatay, Mendoza si affida a una regia immersiva che trascina lo spettatore dentro l’azione. Se nel primo film il regista raccontava la brutalità della polizia corrotta e nel secondo – che gli valse la Palma d’Oro come miglior regista – mostrava un uomo intrappolato in un sistema di violenza, qui il meccanismo è lo stesso: un protagonista travolto da un mondo che lo sovrasta, condannato a confrontarsi con la propria coscienza. Il regista filippino mostra come l’orgoglio nazionale sia spesso il motivo che spinge i soldati ad accettare missioni impossibili, ma anche come possa trasformarsi in una condanna quando diventa obbedienza totale. Dao-ayen torna a casa come un eroe, ma l’accoglienza trionfale stride con il senso di colpa che lo attanaglia. Lungi dall’essere una celebrazione della guerra, il film suggerisce che l’amore per la propria terra non si misura nelle medaglie o nei proclami, ma nel riconoscere le sue ferite e le sue contraddizioni.