Batìk, l'accumulo della visione

Festival che procede per visioni molteplici, accostamenti inediti, accumulo delle proposte, Batìk è ormai un segno evidente della necessità per il cinema di trovare nuovi spazi e nuovi luoghi di visione

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Giunto alla sesta edizione, Batìk più che un festival, una rassegna, un evento culturale è un luogo particolare, significativo esempio di un fermento che attraversa ormai da tempo la penisola: quel fiorire, cioè, di momenti di proposta e di incontro legati al cinema che nascono (e a volte muoiono dopo una o due edizioni) un po' dappertutto, specialmente al di fuori dei luoghi canonici, lontani dai Festival più affermati e tradizionali. Una logica del decentramento e della moltiplicazione delle proposte proprio là dove la tendenza accentratrice della grande distribuzione cinematografica (qui andrebbe aperta una parentesi molto ampia) mostra i segni più tangibili, nella realtà della provincia italiana, nelle piccole città alle prese con la trasformazione dell'offerta di cinema, legata ai grandi circuiti, necessariamente selezionatrice e limitata.

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105 film in programmazione per 16 giorni, omaggi, incontri, retrospettive. Festival caotico ed abnorme (16 giorni!), disseminato in vari luoghi del centro di Perugia, Batìk è allora il segno tangibile del desiderio ossessivo di mostrare, di sfuggire alla piattezza culturale di quei luoghi tagliati fuori e condannati all'invisibilità (propria e di ciò che proviene da altrove). La rassegna non segue infatti la logica dell'anteprima a tutti i costi (due soli film anteprima: Kiarostami e Scavolini. Il primo uscito nelle sale lo stesso giorno, il secondo è un film del 1981). Certo, 16 giorni sono tanti, così come gli eventi programmati; è inevitabile qualche problema organizzativo, qualche ospite che non viene, uno o due film saltati, qualche problema di proiezione (ma in fondo a Venezia quest'anno saltava la corrente al Palazzo del Cinema un giorno si e l'altro pure). Ma l'accumulo di proposte mostra in realtà una identità proteiforme, a 360 gradi. Non un'idea unitaria di cinema, quanto la ricerca di molteplici forme e possibilità, come nelle intenzioni di una delle sezioni del festival, programmaticamente intitolata "che cos'è il cinema?".

Chiedersi, sulla falsariga di Bazin, che cosa sia il cinema, cosa rappresenti, cosa riesca ancora a vedere il cinema non è una domanda ingenua, è una domanda necessaria; una domanda che esprime una resistenza alla tendenza omologante delle immagini-clichè. Diventa quindi un atto di resistenza quello di mostrare la versione integrale in pellicola di Millenium Mambo di Hou Hsiao Hsien, luogo temporale per eccellenza, il film del regista taiwanese vive letteralmente di inserti e derive, di narrazioni mancate, di durate che hanno la necessità di essere viste e vissute, nel loro schematismo, nella loro esibita ripetizione. E ancora: mostrare Satantango e Werckmeister Harmoniak di Bela Tarr, film esaltati dalla critica ma invisibili, risponde all'esigenza etica della visione, all'esigenza cioè di moltiplicare le possibilità di visione, di creare degli spazi e dei tempi là dove l'assenza di tali spazi si fa più evidente.


Omaggi e retrospettive hanno caratterizzato questa edizione: al di là dell'omaggio a Pinocchio (forse l'evento più dispersivo e meno organico legato a Batìk), fatto di richiami molteplici alla figura del burattino, l'omaggio a Romano Scavolini colpisce per la particolarità del tempo-cinema del regista fiumano. Nightmare (1981), film svolta nella carriera del regista, ebbe un certo successo in USA e diede origine (una volta acquisiti i diritti) alla serie omonima diretta (o prodotta) da Wes Craven. Proprio il confronto – inevitabile – con il film di Craven innesca percorsi critici particolari. Il Nightmare di Scavolini è una sorta di controcampo annunciato del new horror hollywoodiano. Scavolini ripercorre tutti i luoghi tipici del genere, non rovesciandoli, ma dilatandoli, estendendo la durata, la ripetizione dei gesti e degli sguardi, fino a rendere il film una sorta di esercizio di percezione. Tutto è immerso in una atmosfera allucinata, come se il film stesso vivesse al ritmo del protagonista, un assassino imbottito di psicofarmaci. Il tempo del film ne risente in profondità, vive e respira dal punto di vista dell'assassino (tanto quanto in Nightmare di Craven il tempo del sogno/incubo rimane all'esterno; è il luogo nascosto dal quale "irrompe" Freddy Kruger). Ed è proprio la dimensione centrale della temporalità a caratterizzare questa edizione del Festival. La visione integrale di Millenium Mambo trasforma letteralmente il film in una messa in forma del tempo, della ripetizione che sembra non riuscire a trattenere nulla, a lasciare che qualcosa permanga (come la traccia del viso della protagonista, impresso sulla neve destinata a sciogliersi).


I luoghi e i tempi del cinema sono probabilmente una delle ossessioni fondamentali delle immagini attuali. Lungo questa linea infatti, è possibile incontrare Ten di Kiarostami, riflessione al limite sull'esistenza e sulla parola. Limite che è determinato dall'inquadratura stessa (l'interno dell'abitacolo di una vettura), dalla costrizione dei corpi (costretti a parlare, non potendo muoversi, non potendo fare altro), dalla dichiarata assenza della regia (Kiarostami si limita ad impostare il film, seduto dietro, nascosto allo sguardo della telecamera, presenza invisibile che vorrebbe annullarsi). Il Festival prosegue, e ancora la domanda "che cos'è il cinema?" si rende manifesta, prosegue la sua interrogazione. L'ultima parte del Festival è infatti un omaggio-retrospettiva alle Giornate del Cinema Africano di Perugia che sin dal 1982 proponevano uno sguardo su una cinematografia (e un'idea di cinema) ancora sconosciuta. Molti i film ripresentati più qualche novità. Ancora una volta un'occasione per spostare la domanda e inquadrare il cinema all'interno di un continente problematico come quello africano, come ha dimostrato anche la tavola rotonda a cui hanno partecipato, oltre a registi come Sissako, Mahmoud Ben Mahmoud, anche critici come Roberto Silvestri e Giuseppe Gariazzo. Batìk si è concluso dunque nel segno della moltiplicazione degli sguardi; sguardi che interrogano il cinema e che tentano, tra varie difficoltà, di restituirgli tempo e spazio. Appuntamento all'anno prossimo.


 

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