Be My Voice, di Nahid Persson

La forza propulsiva del documentario sta nella vitalità della sua protagonista, simbolo della disobbedienza civile iraniana ma mai soggetto assoluto del racconto. Da oggi in sala

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Era il 1994 quando Masih Alinejad è stata arrestata per la prima volta per aver protestato contro il governo iraniano. Ribelle e anticonformista fin da bambina, la carcerazione non è servita a sopire il suo animo rivoluzionario. Una volta diventata giornalista parlamentare, ha usato la propria posizione per rimettere in discussione le leggi che vorrebbero le donne completamente assoggettate alla volontà degli uomini. A partire dall’obbligo di indossare l’hijab. Licenziata, minacciata e picchiata per la sua implacabile ribellione, Masih è stata costretta a lasciare l’Iran nel 2009 per trasferirsi negli Stati Uniti, dove ha chiesto asilo politico e dove ha iniziato a lavorare come giornalista televisiva per una rete internazionale, continuando a portare avanti la propria battaglia denunciando le brutalità del regime islamico.

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Anche Nahid Persson, regista del documentario, è una donna iraniana espatriata all’estero. Be My Voice è il frutto del loro incontro, della comunione di origini, esperienze, lotta e speranze per il futuro. È il ritratto di una donna dalla forza inesauribile, colma di rabbia e fiducia, amore e determinazione, capace di lasciarsi andare al più candido entusiasmo per ogni piccola conquista, per ogni persona che si aggiunge alla protesta, così come alla più totale disperazione per ogni violenza o ingiustizia subita da uno dei suoi compatrioti. Nel 2014 Masih ha aperto la pagina Facebook My Stealthy Freedom, dalla quale invitava le donne iraniane a filmarsi senza velo. Proprio grazie al libero accesso ai social media (su Instagram conta 6.7 milioni di follower) Masih è diventata portavoce di migliaia di connazionali, donne e uomini, che si oppongono alla costante violazione dei diritti umani perpetrata dal regime, a rischio di essere arrestati, torturati o uccisi. I social network diventano punto centrale del racconto (come dimostrato anche da Telegram per diffondere notizie sulla guerra in Ucraina), unico strumento di resistenza in un Paese dove ogni media è sottoposto a censura e i giornalisti stranieri non possono entrare. Masih si fa carico di storie, voci, persone e soprusi. Ma l’altra faccia della medaglia dell’essere simbolo della rivolta, è il dover vivere sotto protezione in un Paese che resta pur sempre straniero, lontana da quegli amici che si sono sacrificati in nome di una lotta più grande e comune, o la famiglia, in primis il fratello Alì, imprigionato a causa del suo attivismo, il cui sostegno è la vera forza nutrice di ogni sua battaglia. Alla morte, alla violenza, alle intimidazioni Masih risponde con un’ostinata gioia di vivere, conscia che la propria forza trova radici nel comune desiderio di liberazione, in un reciproco rigenerarsi di ottimismo e tenacia. Come una catena, una corda, continuamente incrinata dalla brutalità del governo iraniano, ma capace di mantenersi salda e propulsiva grazie ad una rete incorruttibile come quella social. E Masih non perde occasione per ribadirlo, da ogni palco che le viene concesso, a chiunque sia disposto ad ascoltare il suo canto di rivolta per l’Iran.

 

Titolo originale: id.
Regia: Nahid Persson
Distribuzione: Tucker Film
Durata: 94′
Origine: Svezia, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
3.67 (3 voti)
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