Beata ignoranza, di Massimiliano Bruno

C’è una consapevolezza di Massimiliano Bruno di dover risolvere l’efficacia intermittente del film attraverso espedienti registici e dispositivi narrativi che portano però il film ad ingolfarsi

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Mi ricordo Marco Giusti che recensisce Paparazzi, nel 1998, scrivendo come il film fosse “ancora più realistico nel suo puro orrore” proprio perché “sciatto, sopra le righe, sballato”. Davanti a quanto il nuovo titolo di un autore spesso fenomenale come Massimiliano Bruno sia dolorosamente fuori fuoco, poco incisivo e in più passaggi svogliato, viene da utilizzare la stessa formula interpretativa, considerando tematica e argomentazioni messe in campo dallo script firmato dal regista insieme a Gianni Corsi e Herbert Simone Paragnani: è probabile che per parlare della “beata ignoranza” in cui la comunicazione nella nostra epoca social e virtuale è sprofondata secondo gli autori, non ci fosse altra via se non una commedia pericolosamente annacquata anche nelle abituali carte vincenti di Bruno, come la capacità di far risaltare gli interpreti e un certo gusto per la battuta a tutti i costi – qua tenute l’una e l’altra cosa purtroppo clamorosamente a freno, col risultato di tenersi lontani da un affondo anche latentemente graffiante.
Aleggia invece per tutta l’opera una certa sensazione di rassegnato fatalismo, come se le cose non potessero andare altrimenti sia dal punto di vista produttivo (che il film sia una sorta di ripiego più “facile” dopo le sacrosante ambizioni di Gli ultimi saranno ultimi, come Confusi e felici lo fu dopo Viva l’Italia?) che proprio realizzativo, con i duetti tra Giallini e Gassmann che raramente raggiungono la scintilla, e la sottotrama sentimentale stavolta davvero fin troppo geometricamente arzigogolata per poter essere risolta con l’asso nella manica di Massimiliano, ovvero la sequenza su canzone pop d’immaginario intergenerazionale (qui si tratta di Isn’t she lovely di Stevie Wonder).
Dove il tocco del regista conserva una certa luminosa efficacia è nel tratteggiare i personaggi femminili puntualmente più cazzuti e moderni della controparte virile, e ne giovano sensibilmente Carolina Crescentini, Valeria Bilello (in un ruolo spinoso tratteggiato con un certo coraggio) e l’esordiente Teresa Romagnoli.

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Ma il punto qui sembra essere davvero una certa consapevolezza di Massimiliano Bruno di dover risolvere l’efficacia intermittente del film attraverso espedienti registici e dispositivi narrativi (lucidamente, potrebbe trattarsi di un raddoppio formale sulle traiettorie di schermi, doppie verità, leaks e bacheche – replicate anche nel marmo di una lapide! – su cui si fonda l’intreccio farsesco del racconto). Questo porta Beata ignoranza ad ingolfarsi in una serie di piani cinematografici incastrati tra di loro con uscite reiterate dalle cornici, monologhi con sguardo in macchina, flashback rivisitati, insomma un commento perenne alle immagini come se Bruno avesse costantemente paura di lasciarle da sole, a sedimentare, a sperimentare il vuoto (la prima mezz’ora di film si rivela in quest’ottica particolarmente frustrante): per questo uno potrebbe concludere che l’evanescenza dell’impianto sia di rimando a quella del mondo digitale, a cui si riferisce.
Peccato allora che le trovate meta- sembrino davvero debitrici del Paolo Genovese più destrutturato di Una famiglia perfetta o Tutta colpa di Freud (si veda soprattutto il casolare con i due protagonisti contro i quali viene proiettata l’enorme scritta FINE), due film a conti fatti molto più vicini a Beata ignoranza di quanto lasciasse supporre l’intenzione evidente di chiudere una sorta di trilogia di satira di costume wireless, come di un film di Sordi a colori, con Perfetti Sconosciuti e Che vuoi che sia.

Regia: Massimiliano Bruno
Interpreti: Alessandro Gassmann, Marco Giallini, Valeria Bilello, Carolina Crescentini, Teresa Romagnoli, Guglielmo Poggi
Origine: Italia, 2017
Distribuzione: 01
Durata: 102′

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