"Beket", di Davide Manuli

Beket
Conteso fra underground settantasettino e teatro dell'assurdo, Beket propone un Aspettando Godot fatto road movie, con i due protagonisti a vagare e a interrogarsi per una landa desolata e purgatoriale. Un'opera indipendente e sbilanciata, che scarica il peso dei tanti riferimenti sulla sola suggestione dell'ambientazione

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BeketDue uomini aspettano l’autobus nel deserto. Uno è francese e porta un informale giubbotto di pelle, l’altro è italiano ed è in giacca e cravatta, ma poco importa, vestiti e ruoli sono destinati a confondersi. Sono Jaja e Freak (Jerome Duranteau e Luciano Curreli), i novelli Vladimir ed Estragon di questo “sequel” ideale di Aspettando Godot di Samuel Beckett, storpiato/omaggiato fin dal titolo. I due si stancano di aspettare e decidono di andare a trovarsi il loro dio e i loro oracoli oltre la montagna: è la premessa di un road movie (meglio forse desert movie) dichiaratamente metafisico e surreale. Dunque, dialoghi straniati e inconcludenti, che siano monchi o ossessivamente ripetuti, incontri bizzarri con figure misteriose come un mariachi e un non meglio identificato agente 06 (un gigionissimo Fabrizio Gifuni) e un’ambientazione desolata da terra di nessuno.
L’attore e regista Davide Manuli ha girato questo suo secondo lungometraggio in Sardegna in soli 13 giorni, in 16 millimetri e in bianco e nero, come atto di ribellione contro le difficoltà produttive incontrate da un altro progetto. Anche se si presenta come il classico oggetto cinematografico fuori dal tempo, in realtà Beket appare nutrito di underground italiano dei tardi anni '70 e
'80: si pensi alla presenza di Roberto Freak Antoni che declama anche alcune canzoni degli Skiantos, alla locandina in stile Andrea Pazienza, agli squarci di passato personale evocato dai Jaja e Freak, uno cantante in un gruppo post-punk, l’altro ex eroinomane. Conteso tra riferimenti contrastanti (ma comunque “alti”) come il teatro dell’assurdo e il post-settantasette, il film trova la sua strada soprattutto nell’ambientazione davvero metafisica di una Sardegna lunare e desertica, location ben servita dalla bella fotografia ruvida di Tarek Ben Abdallah. Ma non si può pensare che l’ambientazione possa sostenere tutto il peso di esprimere quel senso di disperazione (e di libertà creativa) che non passa attraverso i dialoghi e attraverso il dispositivo cinematografico. Le scelte della regia, dalle rapide ellissi del montaggio alla colonna sonora electro, sembrano più andare nella direzione di una scorrevolezza e di una estetizzazione del testo che di una capacità di esprimere la dolorosa vertigine del non senso della vita, compito non a caso affidato a un espediente estemporaneo come il monologo che passa per radio. E la presenza aleggiante dell’opera di Beckett, da ispirazione e nume tutelare si fa ingombrante termine di paragone. Il film è stato presentato allo scorso festival di Locarno dove ha vinto il premio della critica indipendente.

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Regia: Davide Manuli

Interpreti: Luciano Correli, Jerome Duranteau, Fabrizio Gifuni, Paolo Rossi, Roberto Freak Antoni

Distribuzione: Bluefilm
Durata: 80'

Origine: Italia, 2008 

 

 

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    Beket
    Conteso fra underground settantasettino e teatro dell'assurdo, Beket propone un Aspettando Godot fatto road movie, con i due protagonisti a vagare e a interrogarsi per una landa desolata e purgatoriale. Un'opera indipendente e sbilanciata, che scarica il peso dei tanti riferimenti sulla sola suggestione dell'ambientazione

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    L’attore e regista Davide Manuli ha girato questo suo secondo lungometraggio in Sardegna in soli 13 giorni, in 16 millimetri e in bianco e nero, come atto di ribellione contro le difficoltà produttive incontrate da un altro progetto. Anche se si presenta come il classico oggetto cinematografico fuori dal tempo, in realtà Beket appare nutrito di underground italiano dei tardi anni '70 e
    '80: si pensi alla presenza di Roberto Freak Antoni che declama anche alcune canzoni degli Skiantos, alla locandina in stile Andrea Pazienza, agli squarci di passato personale evocato dai Jaja e Freak, uno cantante in un gruppo post-punk, l’altro ex eroinomane. Conteso tra riferimenti contrastanti (ma comunque “alti”) come il teatro dell’assurdo e il post-settantasette, il film trova la sua strada soprattutto nell’ambientazione davvero metafisica di una Sardegna lunare e desertica, location ben servita dalla bella fotografia ruvida di Tarek Ben Abdallah. Ma non si può pensare che l’ambientazione possa sostenere tutto il peso di esprimere quel senso di disperazione (e di libertà creativa) che non passa attraverso i dialoghi e attraverso il dispositivo cinematografico. Le scelte della regia, dalle rapide ellissi del montaggio alla colonna sonora electro, sembrano più andare nella direzione di una scorrevolezza e di una estetizzazione del testo che di una capacità di esprimere la dolorosa vertigine del non senso della vita, compito non a caso affidato a un espediente estemporaneo come il monologo che passa per radio. E la presenza aleggiante dell’opera di Beckett, da ispirazione e nume tutelare si fa ingombrante termine di paragone. Il film è stato presentato allo scorso festival di Locarno dove ha vinto il premio della critica indipendente.

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    Regia: Davide Manuli

    Interpreti: Luciano Correli, Jerome Duranteau, Fabrizio Gifuni, Paolo Rossi, Roberto Freak Antoni

    Distribuzione: Bluefilm
    Durata: 80'

    Origine: Italia, 2008 

     

     

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