Bella e perduta, di Pietro Marcello

il cinema di Pietro Marcello trova la sua forza nel suo sguardo rovesciato sul reale. Un quotidiano non espunto ma inglobato all’interno del mito, della fiaba, di una natura preesistente e tragica

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In un orizzonte cinematografico che sempre più spesso ci parla della necessità di aprire il testo filmico all’imprevedibilità della vita, quella di Pietro Marcello è forse una delle opere che più compiutamente incarna questa teoria, poiché la racchiude nella sua stessa, mutevole gestazione.

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Dopo l’anteprima all’ultimo Festival di Locarno, dove figurava tra i lavori più belli del Concorso, Marcello porta coraggiosamente nelle sale questo suo poema elegiaco, arricchito lungo il viaggio – quello dei suoi protagonisti umani e animali come quello del film stesso – da coincidenze fortuite, incontri e perdite improvvise, che ne invertono la rotta, trovando un senso diverso da quello immaginato all’inizio.

Ecco infatti che il reportage ispirato alla forma di romanzo-saggio di Guido Piovene, un Viaggio in un’Italia contadina resistente esplorato attraverso la figura dell'”angelo di Carditello” Tommaso Cestrone, con la scomparsa di quest’ultimo – guardiano volontario di una reggia abbandonata in una Terra dei fuochi che rimane sempre a margine della storia – si libera dalle contingenze del quotidiano per farsi parabola universale.

Una fiaba e un’avventura picaresca che sin dalle prime immagini incontra la qualità del Mito, ricorrendo alle figure ancestrali del bufalo e di Pulcinella, eterne maschere di schiavitù, liberate in un’immersione nel paesaggio in cui natura, essere umano e animale ritrovano un’armonia dimenticata.

Sa parlare alla terra Marcello, e sa ascoltarla. Come il Michelangelo Frammartino de Le quattro volte, con cui condivide la purezza dell’osservazione. La sua cinepresa non ha mai un punto di vista immobile ma in costante divenire, in totale empatia con i propri amatissimi personaggi.

bella e perdutaAderisce allo sguardo disincantato di Pulcinella e a quello malinconico del suo bufalo triste, alla cui tragica esistenza, già votata alla morte, danno voce i pensieri lirici immaginati da Braucci, letti da Elio Germano: e la sua presenza, in un film ispirato anche dai versi leopardiani sull’Italia, chiama in causa il Giovane favoloso martoniano e quella stessa fusione panica che animava le ultime immagini del film.

Ma sono tanti i riferimenti che girano in quest’opera densissima. Le letture della Ortese, le Pastorali di Respighi e Bach, la lettura colta e astorica di un rapporto complesso tra natura e umano, che sa inserirsi perfettamente anche in un discorso critico sull’Italia contemporanea.
Marcello realizza un film che sa entrare e uscire dall’attualità, deformando la realtà attraverso la soggettiva sfocata e affannosa dell’animale, o trasfigurando l’ortesiano “ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione nelle più lucenti terre del sud”  in una grottesca burocrazia di Pulcinella.

Mai didascalico o prevedibile, il cinema di Pietro Marcello trova la sua forza proprio in questo sguardo rovesciato sul reale. Un quotidiano non espunto ma inglobato all’interno del mito, della fiaba, di una natura preesistente e tragica eletta qui a centro focale dell’opera.

Regia: Pietro Marcello

Interpreti: Sergio Vitolo, Gesuino Pittalis, Tommaso Cestrone

Distribuzione: Cinecittà Luce

Durata: 86′

Origine: Italia 2015

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