Bellaria Film Festival 41. Incontro con Luca Ferri

Abbiamo incontrato Luca Ferri in occasione del Bellaria Film Festival, che ha premiato il corto “Paradiso Perduto in due rulli” diretto con Menegazzo e Pernisa e incentrato su Franco Piavoli

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È la condanna di esser vivi”, Luca Ferri si spiega così, in una conversazione esclusiva, la marginalità a cui è costretto Franco Piavoli. Alla quale, però, il Bellaria Film Festival ha dato battaglia, riportando in sala Voci nel tempo e dedicando un premio speciale proprio al maestro novantenne del cinema sperimentale. Un altro premio, quello Beltrade del concorso Gabbiano, è stato invece assegnato al cortometraggio Paradiso perduto in due rulli. Ferri (con cui abbiamo scambiato qualche parola) e i co-registi Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa, raccontano in 7’ il prossimo (ultimo? Forse no, visto che dice di star preparando anche un’opera sul cibo) progetto di Piavoli: un film sul paradiso terrestre. Il regista, in primo piano, ci racconta il suo progetto, ne descrive alcune scene, interpreta qualche dialogo. “Non è solo un film che si vorrebbe fare e magari non si farà, è anche un ragionamento sul dispositivo”. I due rulli del titolo sono tutta la pellicola che i tre registi avevano a disposizione. A un certo punto, infatti, si interrompe, lo schermo diventa nero, ma la voce del maestro continua il suo racconto. I rumori della sostituzione del rullo si sovrappongono alla sua voce. Il primo piano riappare, ma la linea di congiunzione con l’immagine è palpabile. Adamo ed Eva scalano un pendio, si fermano a riposare, discutono. La pellicola finisce di nuovo. Le parole però continuano.

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Nell’esatto momento in cui l’immagine si nega, si apre anche alle sue infinite possibilità. Con le parole a fare da evocatrici, il nero dello schermo non è sinonimo di oblio. Un aspetto, quest’ultimo, centrale nella nostra contemporaneità. Siamo circondati da strumenti di registrazione, eppure sembra più facile che mai dimenticare. “C’è una continua sete di novità che inevitabilmente porta all’oblio, per sovraccarico. È importante tornare sulle cose, perché né loro né tu sono gli stessi”. A volte, però, il fuoricampo, la marginalità viene anche ricercata. “Non ho mai reso disponibili sulle piattaforme i miei film perché sono pensati per la sala. Per esempio, Dulcinea girato in 16mm non si può vedere su un device. Tra una brutta visione e una mancata visione scelgo la seconda. Non è però una questione ideologica, ma di supporto adatto: Vita terrena di Amleto Marco Belelli è forse più adatto ad esser visto in VHS o su un pc che in una sala. Comunque, uno può porre dei vincoli, soprattutto nella fase di realizzazione del film, ma una volta completato viene inevitabilmente dato in pasto al contesto”.

Vincoli, come quello di limitarsi a due rulli di pellicola. “Lo avevamo già fatto con Ab Ovo, col quale siamo andati in Marocco con un numero limitato di rulli. Se un cammello avesse impallato la camera, il film non si sarebbe fatto. È l’aspetto ludico del cinema, quello che ci ha insegnato così bene un autore come Jacques Tati. E il gioco è una cosa serissima”. Proprio su questo elemento si concentrerà la prossima opera di Ferri, Ludendo docet: un esperimento che implica l’organizzazione di un piano sequenza di settanta minuti girato in assenza del regista, che intanto gioca a carte in un bar vicino. Nel gioco si instaura uno scambio che prescinde dalla comunicazione di un messaggio, non ci sono tanto parole quanto dinamiche che si muovono sulla pelle. “Penso che un film parli da sé, sento che quel che potrei dirne a proposito potrebbe essere di troppo o anche deleterio. Un altro film che sto preparando, la storia di un uomo che decide di non parlare più e che si accompagna a una donna malata di Alzheimer, forse anticipa una mia futura scelta: quella di non dire più nulla”.

Siamo circondati da dispositivi di registrazione, la produzione di immagini è ormai debordante, un vulcano che erutta ininterrottamente immagini di ogni tipo. Dove risiede, allora, l’urgenza di un regista? In quello che vuole dire, in ciò che vede davanti ai suoi o proprio nel suo sguardo? “È la domanda principale che bisogna porsi. Posso rispondere parlando di design e architettura, campi fondamentali per capire le tendenze odierne. Da giovane ero molto affascinato dal razionalismo, dal Bauhaus, da Terragni… Solo molto più avanti ho capito, invece, Gio Ponti e le sue opere le ho capite solo più avanti. Col tempo il mio manifesto programmatico è diventata una frase di Monteiro: rigore e fantasia. Le due cose non si escludono, si negano e riaffermano continuamente”.

Resta fondamentale il gioco che, come sostiene il filosofo Johan Huizinga, è lo stato primordiale della cultura. Di fronte al mondo, compreso uno fatto di informazioni, l’uomo ha il desiderio innato di plasmarlo seguendo le proprie inclinazioni. Oggi le immagini che ci circondano ci chiedono sempre più spesso proprio questo, di esser vissute, di essere navigate. Come le immagini e i suoni di Voci nel tempo di Piavoli, al suo cinema organico che sceglie di partecipare alla vita piuttosto che imitarla. Per ritrovare, in un gioco, in una danza, il paradiso che si credeva perduto.

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