Belva Nera, di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi
Solitudine e appartenenza, nell’esordio degli autori di Re Granchio, tra cinema documentaristico, favola folkloristica e western crepuscolare. Oggi per Docusfera da Sentieri Selvaggi h 19 a Roma
Prende oggi il via la programmazione di Docusfera #3 da Sentieri Selvaggi, con la proiezione del corto d’esordio dei due autori di Re Granchio.
Un fischio accompagna la presenza ombrosa e solitaria di un vecchio cowboy che, poggiato al tronco di un albero, osserva la boscaglia con il fucile alla mano che anziché essere puntato contro qualcuno o qualcosa, resta lì, sospeso, come se la sua importanza fosse relativa, eppure delle primissime inquadrature di Belva Nera è l’assoluto protagonista.
Quell’arma che alla pari del cappello a tesa larga e della camicia di flanella a scacchi, diviene immediatamente simbolo di un modello di riferimento cinematografico – il western – cui il duo Zoppis/Rigo de Righi non smetterà mai di rivolgere lo sguardo, concretizzandone un’ideale e personalissima visione, fortemente contaminata tanto dai linguaggi del cinema documentaristico, quanto di un certo realismo magico che affonda le radici nella favola folkloristica e nella leggenda popolare, esplorata in seguito con i sorprendenti Il Solengo e Re Granchio.
Belva Nera, a differenza dei due titoli appena citati, seppur limitato in termini di durata e di spazio narrativo, trattandosi di un esordio in forma di cortometraggio, lavora abilmente sulla costruzione di un immaginario crepuscolare che è al tempo stesso di luogo e di anima, dando vita ad una dimensione di solitudine e senso di appartenenza che si riflette dapprima su Ercolino, il vecchio cowboy che in voice over racconta a sé stesso e al pubblico, la leggenda popolare legata all’avvistamento e alla caccia della pantera nera, e poi sul resto della comunità.
Strade desolate, vecchi amici riuniti attorno ad un camino e battute di caccia nel fitto di gelide boscaglie.
Tutto è avvolto da una perdurante e fantasmatica foschia che, accompagnata da suggestioni visive e narrative, affidate a segmenti di interviste, ci dimostra quanto Belva Nera sia interessato più di ogni altra cosa all’esplorazione appassionata di quell’epicità che troppo spesso resta celata, tra aneddoti popolari e canti di paese, qui scandagliati e amati, attraverso le figure di Ercolino, Tony Scarf… e così il fantasma della pantera nera, che forse c’è, oppure è tutt’altro.
Qualcuno l’ha vista, qualcun altro invece no. Così come qualcuno è fuggito, mentre qualcun altro è rimasto. Non importa dunque se la caccia giunga ad un esito preciso. Ciò che conta è il significato profondo dell’appartenenza ad un luogo, al di là della solitudine e di ciò in cui si sceglie di riporre la propria speranza.
Ercolino da quelle terre non se ne andrà mai e, tornando ancora una volta al western crepuscolare, è proprio con il profilo di un vecchio cowboy al tramonto che Belva Nera conclude la propria narrazione, suggerendo nemmeno troppo sottilmente echi eastwoodiani, in questo caso addolciti da una promessa – quella di restare – destinata a non spezzarsi mai.