Bentu, di Salvatore Mereu

Forse il film più essenziale di Mereu. Ma non per questo nega la complessità e le contraddizioni o rinuncia alla cura della composizione. Semplice, ma necessario. Giornate degli Autori

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Come si filma il vento? È da sempre una delle grandi domande. Sempre in campo, sempre fuoricampo. Qualcosa di intrattenibile e di intrattabile. Da inseguire tra le foglie, gli steli, i rami, i capelli, i vestiti. Un’ossessione contro cui combattere. Da arginare, per non esserne travolti. O magari da attendere, come una liberazione. Ecco, con Bentu, Salvatore Mereu ingaggia la sua battaglia con il vento. Che, per tradizione, è l’elemento chiave della raccolta del grano, ciò che serve a separare i chicchi dalla paglia. Prima che arrivassero le trebbie a sovvertire il tempo naturale. Ma il vecchio Raffaele vuole fare le cose al modo di una volta. Il suo rifiuto della modernità è ostinato, testardo, senza mezze misure. Persino nella sua piccola capanna ai margini del campo, senza elettricità, sono pochi i segni del contemporaneo. Figuriamoci se per il raccolto del grano possa accettare di servirsi una macchina. No, solo l’attesa del bentu, del vento, solo la preghiera e la maledizione.

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Da un racconto di Antonio Cossu, scrittore della provincia di Oristano, morto nel 2002, e da un laboratorio con gli studenti dell’Università di Cagliari, Salvatore Mereu tira fuori il suo film forse più essenziale. Prosciugato dalle deviazioni nere o dalle irriverenti libertà degli ultimi film, da tutte le tentazioni demoniache. Una parabola dalla curvatura netta, nitida. Che si distende sulla lentezza di un ritmo antico, in cui il rapporto tra l’uomo e la natura è fatto di attese, speranze e frustrazioni, di gesti consapevoli, quasi rituali, di ripetizioni infinite. È una specie di pudore. Che riguarda anche l’unico contatto umano della storia, quello tra il vecchio Raffaele e il piccolo Angiolino, un legame di affetto sì, ma che si nutre anche di insegnamenti, di una trasmissione di saperi, fondata sulla coscienza che per ogni cosa esiste un tempo giusto. Anche per montare a cavallo.

Sì, in fondo è un film semplice Bentu. Ma non per questo nega la complessità e le contraddizioni. O rinuncia alla cura della composizione. Anzi… Mereu sa trovare la grande forma di un rapporto organico tra l’ambiente e il personaggio, l’uomo. Se in Assandira, il modo di guardare alla terra e alla tradizione era completamente stravolto, era diventato l’oggetto perverso di un bestiale appetito turistico, qui si torna a un equilibrio più sano. Che si apre in un senso del paesaggio più armonico. Ma non vuol dire che si tratti di un equilibrio disteso. Perché, ovunque, ci sono i segni della pena, la durezza del lavoro, l’alea del raccolto. Incisi come nella pietra sul volto rugoso del vecchio Raffaele. Perché la verità è anche questa, al di là delle idealizzazioni georgiche. Il fatto che, tra le altre cose, anche la semplicità costa fatica. È questione di attrezzi e di pazienza. Ma è proprio sotto questo aspetto che emerge la ferita di una trasformazione più traumatica. Perché il cinema di Mereu è lontano dall’essere pacificato e così individua la frattura, la faglia sismica di un tempo nuovo che nega lo sforzo e l’attesa. Ma la frenesia, accelerando la conclusione, per sua natura rischia la tragedia. Il discorso è di una chiarezza lampante. Alla fine, quel brevissimo sguardo in macchina di Raffaele è una specie di rassegnata, straziante constatazione. Di un’impotenza profonda e di un esilio dalla storia. Subito dopo esce dall’inquadratura e se ne va per altri sentieri selvaggi. Non c’è più spazio per lui.

 

Regia: Salvatore Mereu
Interpreti: Giuseppe ‘Peppeddu’ Cuccu, Giovanni Porcu
Distribuzione: Viacolvento, Artex Film
Durata: 70′
Orrigine: Italia, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
Sending
Il voto dei lettori
3.75 (20 voti)
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