BERGAMO FILM MEETING 31 – Incontro con Robert Guédiguian e Ariane Ascaride

Robert Guédiguian

L'atmosfera che si respira sin da subito all'Hotel Mercure di Bergamo non è tanto quella di un incontro stampa, quanto piuttosto di una conversazione conviviale tra vecchi amici. Ecco che allora regista e attrice ci accolgono nel loro salotto per parlare liberamente di cinema, politica, Storia e perfino di scarpe

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Robert GuédiguianL'atmosfera che si respira sin da subito all'Hotel Mercure di Bergamo non è tanto quella di un incontro stampa, quanto piuttosto di una conversazione conviviale tra vecchi amici. Ecco che allora Robert Guédiguian e Ariane Ascaride ci accolgono nel loro salotto per parlare liberamente di cinema, politica, Storia e perfino di scarpe, facendo sembrare anche argomenti di un certo spessore un qualcosa di semplice e naturale.

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Il suo è un cinema che ha sempre rappresentato la classe di subalterni, la classe operaia, ma, da quando ha cominciato a fare cinema negli anni Ottanta, molto è cambiato. In che modo riflette oggi su questa classe sociale?

RG: Il mio è sempre stato un cinema contemporaneo. Anche se ho sempre lavorato sulla classe operaia, la “povera gente”, come la chiamava Hugo, ho seguito l'evoluzione di questo mondo e ora la classe subalterna non è più quella di trent'anni fa. Per esempio, il cementificio in cui ho ambientato tre o quattro film. Nel mio primo film, il protagonista non voleva lavorarci. All'epoca in Francia c'erano 300.000 disoccupati. Vent'anni dopo, il personaggio si fa assumere, anzi finge di avere una gamba rotta per essere sicuro di venir assunto. La maniera in cui racconto le cose, però, è la stessa. Sempre. Ma la mia non è tanto una scelta estetica. Quasi mio malgrado, do sempre grandezza a questi personaggi, li faccio diventare eroi con tutte le qualità e difetti del mondo. Raccontarlo così è una scelta politica. Il popolo, poi, di solito è ridotto a comparsa sullo sfondo, è una folla indistinta mentre io, sin dal primo film, l'ho consapevolmente portato in primo piano, facendolo uscire dall'indistinto.

Lei ha citato spesso una frase del poeta turco Nazim Hikmet riguardo al comunismo. Da dove prende spunto il suo discorso al riguardo e in che modo fa emergere qualcosa di poetico da esso?

RG: Il comunismo francese così come quello italiano e, in parte, quello spagnolo si costruisce su un humus cristiano, su un rapporto di forte amore verso il prossimo. Per questo il comunismo ha un legame naturale con il lirismo, con ciò che è trascendente, partecipa dell'ordine della fede. Da qui deriva una poetica ed estetica.

Nei suoi film si trova un costante uso della musica classica quasi a stemperare le situazioni in cui si rappresentala classe operaia. Perché questa scelta?

RG: Perché anche la classe di subalterni vi ha diritto. Anche Pasolini usava Bach in Accattone, per esempio. Si crea così uno shock tra questi due mondi, il contrasto tra musica classica su immagini delle borgate romane o, nel mio caso, dell'Estaque. Si produce senso. Ed è anche espressione del mio dare grandezza al popolo. Trovo che sia un effetto interessante rendere ciò che si vede un po' strano, creare questa mancata corrispondenza.

La musica, allora, si potrebbe intendere come salvezza? Ad esempio, in La ville est tranquille?

RG: Sì, in La ville est tranquille c'è un rapporto molto particolare tra il bambino e la musica classica. L'arrivo del pianoforte alla fine del film segna una disalienazione del bambino, una vittoria totale.

Nel film il rap è molto importante, diventa un modo per educare gli altri ragazzi. È lo stesso nella realtà marsigliese attuale?

RG: La musica rap è molto importante per queste nuove generazioni. Nel panorama francese, un gruppo marsigliese come gli Ayam hanno dato un impulso iniziale. Oppure gli MTM a Parigi. Ma ormai anche questi hanno 50 anni. Il rap, però, è ancora molto vitale con gruppi come i soprano. È di certo una forte espressione di queste generazioni.

La musica si può ricollegare anche al tema della memoria, del rapporto intergenerazionale e del disincanto della classe operaia. Un film come Le nevi del Kilimangiaro, ad esempio, riassume questi temi e affronta il problema della memoria collettiva e della Storia come ricerca di identità. Questo tema cosa rappresenta per Lei al giorno d'oggi in Europa?

RG: Credo sia molto grave il fatto che i fili tra le generazioni si sono allentati e il cinema potrebbe contribuire a ristabilire questo legame. In Le nevi, il conflitto non ha ragione di essere, ma si verifica comunque. E se il conflitto si verifica è perché il giovane non ha consapevolezza di cosa abbiano vissuto gli operai sindacalisti in passato così come gli operai non sanno di cosa fanno esperienza i giovani. In Francia, ma pure in Italia, penso che il movimento operaio si sia impegnato troppo a difendere ciò che aveva conquistato, smettendo di fare proposte. Non è più andato “À l'attaque!”. Si frena la regressione sociale sì, ma quando non si fanno più proposte, si crea una distanza rispetto ai giovani di oggi. Per quanto riguarda la trasmissione della memoria, questa non avviene più a scuola, dove ormai si diminuiscono sempre più le ore di Storia e altre materie umanistiche. Essenziale, invece, che le diverse generazioni camminino fianco a fianco, gomito a gomito, che condividano pratiche comuni.

Robert GuédiguianLa morte, sia come riflessione che come fatto fisico, è molto presente nei suoi film. Come mai questa presenza, a volte anche inaspettata?

RG: Probabilmente c'è una ragione soggettiva che, in quanto tale, non vi sto a dire. Da un punto di vista più razionale, la morte, la scomparsa, la fine, anche la fine di un film, dà in prospettiva importanza al racconto. E poi ci si domanda cosa venga dopo, che traccia lasciamo. La morte di un personaggio ne fa il protagonista. E anche la storia, secondo me, diventa da raccontare se c'è una morte o una storia d'amore.

Tra i suoi primi film e quelli più recenti c'è un cambiamento nel modo di raccontare. I primi sono più diretti, gli altri più didascalici, inteso in maniera positiva. Perché tale cambiamento?

RG: Sì, è vero che c'è questo cambiamento. Quando ho iniziato a fare film non sapevo che avrei continuato. C'era una certa urgenza nel raccontare la mia vita, ciò che mi riguardava da vicino nei miei primi film. Rouge midi, per esempio, si può considerare con l'albero genealogico di Dernier été. In Ki lo sa? Racconto cose nerissime. Poi, dieci anni dopo, mi sono svegliato, ho sentito una necessità di fare proposte., di mostrare solidarietà e speranza. La realtà non è così, ma è giusto mostrare che potrebbe esserlo. Sono film incoraggianti. E poi c'è anche la nacessità di conquistare il pubblico perché quando si fa un film, lo si fa per qualcuno.

Di recente, la Cinémathèque Française le ha dedicato una personale. È amato a Parigi tanto quanto a Bergamo?

RG: La Francia è un paese molto centralizzato. I miei film hanno avuto molto successo prima a Parigi. È lì che si lavora, che si fa promozione, che c'è la stampa, che si crea l'opinione pubblica e poi da lì si espande altrove. Il 40% circa della popolazione vive lì. L'accoglienza è stata davvero molto bella.

AA: Jeanette è diventata un simbolo come la cicale. Anche se io non sono come Jeanette.

Se Lei non è come Jeanette, allora com'è?

AA: Sono una comedienne, non mi sento un'attrice visto che con questo termine si implica sempre una sfumatura glamour, un'immagine che non mi appartiene. Il mio è un lavoro. Mi piace incarnare dei personaggi, dare loro senso, un'evidenza. Nei film di Robert c'è sempre il mio volto, sì, ma non sono mai io, sono personaggi scritti nei quali mi fondo.

Tra questi personaggi, ce n'è uno in cui si riconosce?

AA: Non è un mio problema. Il mio è un lavoro. Accetto personaggi interessanti che riconosco come indispensabili. Chiedermi quale sia il mio preferito è come chiedermi che figlio preferisco. E con un certo orgoglio, una volta che ho visto questi personaggi sullo schermo, una volta che ho visto la loro evidenza, non posso pensare che un'altra possa incarnarli. Quando vedo un personaggio, non mi chiedo quale è stato il percorso che ho fatto per arrivarci. Per trovarli comincio sempre dalle scarpe perché dai piedi c'è qualcosa che risale al cervello. Nessuno cammina allo stesso modo. Ognuno sceglie per questo un tipo di scarpe particolare.

Ariane AscarideA questo punto bisogna chiederlo: scarpe alte o scarpe basse?

AA: Ed è questo il problema! Se un personaggio è un personaggio che lavora, come la protagonista di La ville est tranquille, che si deve sbrigare, che deve combattere, ma vuole mantenere lo stesso una certa femminilità, allora si sfinisce a camminare su scarpe alte. Che però sono diverse da quelle della protagonista di Viaggio in Armenia. Lei aveva un padre che faceva scarpe ed era una donna benestante. Arriva in Armenia con queste scarpe e questi vestiti che la rappresentano. Al limite, le cambierà dopo la fine del film, dopo che avrà capito, ma durante ha sempre le stesse scarpe, sta compiendo un percorso.

Quando Lei scrive un soggetto e un personaggio pensa che poi sarà sua moglie a interpretarlo?

RG: Stranamente non scrivo pensando agli attori. Per esempio, Michelle e Jeanette sono personaggi opposti. Io scrivo per me stesso. Poi so che saranno loro a interpretarli, ma non ha influenza sulla mia scrittura. Piuttosto sono importanti le conversazioni che ho con loro.

AA: Non conosco molti registi che diano così tanta fiducia agli attori come fa Robert. Noi possiamo fare davvero tutto. Abbiamo una grande responsabilità e libertà al tempo stesso. Bisogna anche dire che quando giriamo, lui non è un regista che dirige, ma un regista spettatore. È il nostro primo spettatore. Noi recitiamo per lui ed è straordinario vederlo guardarci.

Tornando alla classe operaia, Lei prima citava Pasolini. Ma oggi chi fa parte della classe operaia?

RG: Ci sarà sempre povera gente. Oggi non sono più gli operai, ma gli impiegati, i colletti bianchi. Ci sono tanti suicidi sul lavoro seri tanto quanto le morti bianche. Cambia la divisa, ma le cose rimangono le stesse. Bisogna fare una scelta.

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