BERGAMO FILM MEETING XXVII – Gli esordi della sperimentazione

OK End here di Robert Frank

Due opere dei primi anni sessanta (OK End here di Robert Frank del 1963 e Nicht Versohnt oder (Non riconciliati) di Jean-Marie Straub del 1965), in bianco e nero, accomunate dallo stesso senso di rarefatta angoscia. Due opere che ci ricordano un altro tipo di cinema, lontano dalle rotte commerciali, in cui dare spazio alla sperimentazione e alla ricerca, visiva e narrativa.

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Due opere dei primi anni sessanta, in bianco e nero, accomunate dallo stesso senso di rarefatta angoscia. Due opere che ci ricordano un altro tipo di cinema, lontano dalle rotte commerciali, in cui dare spazio alla sperimentazione e alla ricerca, visiva e narrativa.
Ed é proprio l’idea di narrazione che viene rielaborata in questi due film, il primo OK End here di Robert Frank del 1963, il secondo Nicht Versohnt oder (Non riconciliati) di Jean-Marie Straub del 1965. Frank segue la giornata di una coppia di New York, entra nel loro appartamento, studia le loro dinamiche emotive, costruisce lo spazio filmico attraverso i volti, i dettagli del design, quelli dei corpi degli attori, che inseriti in una dimensione domestica e rassicurante manifestano però un’apatia raggelata fatta di distanze, improvvisi silenzi, gesti usuali. Il racconto si struttura così in un lento susseguirsi di frammenti, in cui il tempo perde poco alla volta importanza e consistenza, sfaldandosi in dialoghi (minimi, ad un passo dall’incomunicabilità) che aumentano invece il senso di disagio dei protagonisti, che si muovono e agiscono come spinti da un’inerzia esistenziale che sembra sempre sul punto di esaurirsi. E’ la vacuità dei rapporti umani a diventare il centro della creazione filmica di Frank, intorno a questo freddo nucleo emotivo girano i personaggi, che si fanno sempre più sottili, quasi trasparenti, fino a scomparire, inghiottiti dal vuoto. Il lavoro svolto da Straub è forse ancora più estremo. Il testo di partenza di Boll, Biliardo alle nove e mezza, viene frantumato in diversi piani temporali che si intersecano e si sovrappongono in maniera illogica, trasformando il tempo del racconto in un mezzo per smascherare l’artificio del cinema stesso, tutta la pellicola è infatti girata seguendo l’idea dello straniamento brechtiano, la macchina da presa non nasconde mai la sua presenza, rimane evidente, si palesa attraverso i suoi movimenti, le inquadrature sghembe, il fuori fuoco. Una messinscena fredda e naturalistica (nel décor, di matrice bressoniana) diventa così paradigma di un cinema che si sacrifica per farsi riflessione teorica, trovando in un nuovo rapporto tra immagine e parola la piena attuazione di se stesso.

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