#Berlinale2017 – Viceroy’s House, di Gurinder Chadha

Chadha rinuncia al tentativo di pacificare le sue due nature. Il racconto della tragica partition indiana non si rivolge alla sua nazione d’origine ma alla storia della sua famiglia. In Concorso

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Gurinder Chadha ha sempre assecondato i tormenti della sua estrazione indo-britannica e la risoluzione delle incomprensioni etniche e razziali sono il tema ricorrente dei suoi film. Allo stesso modo, la regista ha sempre cercato la sintesi perfetta tra il modello del cinema occidentale e quello bollywoodiano. L’impresa appare disperata ma può essere spiegata con la sua volontà di pacificare due nature interiori da uno scontro insanabile. Viceroy’s House conferma come le sue buone intenzioni la portino spesso in un terreno che sta ben oltre i confini di Bend It Like Beckham e di cui non ha piena padronanzaI britannici falliscono la missione di non fare ulteriori danni alle loro colonie indiane a dispetto dei migliori auspici dell’emissario che hanno assegnato allo scopo. Gurinder Chadha vede tramontare il suo sogno di saldare le sue esperienze culturali senza lasciare delle cicatrici evidenti e probabilmente la prossima volta alzerà ulteriormente il tiro. Paradossalmente, le fratture della narrazione e le esitazioni della messa in scena si accentuano in maniera direttamente proporzionale alla personalizzazione del film. Il canovaccio tipico della love-story frenata dalle diversità e dai legami familiari locali si incastra sempre peggio con le manovre diplomatiche di Lord Mountbatten. Viceroy’s House si sfalda contemporaneamente agli sforzi sempre meno efficaci del nobile inglese di far comunicare le diverse fazioni indiane in direzione unitaria. Inizialmente, la sceneggiatura aveva escogitato un modo brillante per tenere unite due visioni parallele degli stessi eventi e riesce a perseguirlo fino a quando la tensione tra le parti non diventa insostenibile. I servitori della sontuosa dimora di Dehli assistono alle trattative tra i capi di stato e riportano i dissidi tra Nehru e Ali Jinnah fino a quando non contaminano anche il loro villaggio. Gli incontri tra il vicerè e i padri fondatori dell’India e del Pakistan vengono rappresentati non solo alla maniera occidentale ma anche attraverso gli occhi degli umili che subiranno le loro decisioni. L’aderenza fisionomica tra l’attore e la figura storica è una necessità molto vicina alla gusto occidentale così come l’attendibilità della ricostruzione ai fatti reali. Hugh Bonneville e Gillian Anderson cercando di rendere giustizia alla controversa biografia dell’eroe della Royal Navy che firmò la partition. Il terrore dei due giovani nativi di essere separati dai propri affetti e dalle proprie aspirazioni per il rispetto delle divisioni religiose e delle volontà familiari appartiene di diritto alle convenzioni di Bollywood. Le rivolte e le migrazioni forzate che seguirono alla nascita delle due nazioni coincidono con una gestione sempre più approssimativa della forza centrifuga del film. Il dubbio nasce quando si tenta di capire se questa concomitanza sia programmatica oppure involontaria: la sensazione è che Gurinder Chadha non abbia mai smesso di sperare di poter mantenere il controllo del film. Probabilmente, questa velleità l’ha spinta all’empatia verso il personaggio della first lady che cerca di riportare un minimo di civiltà e di ordine britannici in un contesto di morte e di sofferenza. L’esempio è significativo di un altro proposito di compromesso impraticabile davanti a due mondi e a due prospettive troppo distanti per essere tenute in equilibrio. Viceroy’s House inizia a franare nel momento in cui lo spirito guida di Gandhi abbandona il film per ritirarsi in una fatalistica rassegnazione verso il futuro. Il film ritorna su di lui soltanto mentre dorme nel bel mezzo dei festeggiamenti per la libertà per sottolineare la sua indifferenza verso una situazione su cui non può avere nessun ruolo attivo. Gurinder Chadha non accetta di uniformarsi nemmeno alla sconfitta di un uomo in odore di santità e le didascalie finali informano il pubblico che l’esodo biblico ha toccato direttamente anche suo nonno. La notizia chiarisce lo scopo del più grande sforzo produttivo della sua carriera: il suo film non voleva portare sollievo alla storia della sua nazione d’origine ma alla sua famiglia. Il suo cinema non ha risolto il suo conflitto nemmeno questa volta e non ha ancora capito che l’accettazione di una coabitazione forzata trasformerebbe le incompatibilità in una forza creativa.

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