BERLINALE 57. "Ping Guo (Lost in Beijing)", di Li Yu (Concorso)

La Cina ad un passo dall'implosione: la grande città cinese sembra un universo vicino al baratro, con i suoi abitanti costretti a peregrinare da un inferno all'altro senza nessun Virgilio a fargli da guida… La giovane regista Li Yu disegna una parabola amarissima sulla realtà cinese

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Ping Guo fa massaggi ai piedi, un'attività che in altri lidi (leggi la Los Angeles tarantiniana…) può essere il pretesto per lanciare qualcuno dal 50° piano di un grattacielo e incasinargli irrimediabimente il modo di parlare. Ma Beijing non è Los Angeles, le prossime olimpiadi che vi si terranno il prossimo anno non prevedono i boicottamenti del blocco sovietico (semplicemente perchè il blocco sovietico non esiste più…) e il capitalismo ha solo da poco mostrato il suo vero volto ai cinesi, anche se prima di oggi nessuno sembrava davvero accorgersene. La cosa meravigliosa è che sia stata una donna la prima a farlo, la regista Li Yu (33 anni e già sei lungometraggi alle spalle: pura fantascienza nella vecchia Italietta dei "senatori del cinema"…) che ha messo in scena questa storia aspra e dura come solo la vita vera può esserlo.

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Ping Guo, dicevamo, è la maga del massaggio ai piedi, ma anche con altre parti del corpo non sembra essere da meno: lo sa bene An Kun, suo marito, che come lavoro pulisce i vetri dei grattacieli (vedete che ritornano ancora i simboli del capitalismo yankee, solo che negli Usa questa attività è ad esclusivo appannaggio dei nativi americani…). Il guaio è che lo sa bene anche Li Dong, il gestore del magnifico esercizio commerciale dedito a massaggiare gli altrui piedi, il quale approfitta di un'ubriacatura particolarmente molesta della dolce ragazza per testarne le capacità in ambiti ben più soddisfacenti di un massaggio ai piedi (poi, non si sa mai, de gustibus…).


Da qui iniziano le complicazioni perchè il marito, pazzo di gelosia, vuole salvo l'onore e pieno il portafoglio, mentre il ricco villano e approfittatore fa il duro anche se in realtà non lo è; in tutto questo Ping Guo, come ogni dramma che si rispetti, scopre il mese dopo il fattaccio di essere incinta.

Sono quarant'anni ormai che la Cina continua ad avvicinarsi e oggi sembra davvero arrivato il momento in cui ci pare a portata di mano: la frammentata realtà cinese sta per esplodere in tutte le su contraddizioni e davvero "Ping Guo" può in questo senso rappresentare un'istantanea del Big Bang, pur con i suoi difetti (su tutti, quello di aver voluto narrare più storie intrecciate tra loro come per sottolineare che la dissoluzione della società cinese è ormai presente in ogni classe sociale, ma non ce n'era davvero bisogno…). Del resto, se i censori cinesi volevano sforbiciare una quindicina di minuti, un motivo ci dovrà pur essere: in effetti, tra scene di sesso, ragazze licenziate senza giusta causa (ma l'articolo 18 in Cina…) costrette perciò a prostituirsi e medici corrotti, l'immagine sfavillante che la Cina vorrebbe dare in occasione delle Olimpiadi del 2008 è piuttosto lontana. In questo "Ping Guo" sembra esser riuscito a sfondare un muro, o meglio, a squarciare quel velo posto dalle autorità di Pechino sulla realtà locale.  

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