BERLINALE 58 – "Fireflies in the Garden", di Dennis Lee (Fuori concorso)

Al di là della presenza di un cast di prim’ordine e l’indubbia professionalità, la pellicola di Dennis Lee appare monocorde riproponendo con un respiro simile tutta una varietà di conflitti familiari. Questo tono immutabile rappresenta per il cineasta il limite ma anche il riparo, visto che dal momento in cui vuole inoltrarsi in un terreno più fantastico (la scena delle racchette da tennis con le lucciole) il film va in caduta libera

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I segni indelebili del passato. Fireflies in the Garden alimenta una continua frattura tra i flashback e le immagini del presente, collegandoli con un dettaglio (un ragazzino che corre, un movimento di macchina attraverso un muro bianco, un rumore) come per evidenziare un’atmosfera tragica che rimane immutata negli anni. Al centro della vicenda c’è Michael, autore di romanzi di successo, che sta tornando a casa dalla sua famiglia in una cittadina del Middle West dopo una lunga assenza in occasione di una festa di famiglia. La sua infanzia e adolescenza sono stati segnati dal burrascoso rapporto con il padre Charles, uomo di successo che ha sempre preteso il massimo dal figlio. Poco dopo essere sbarcato in aereoporto, apprende la notizia che la madre Lisa è morta in un incidente d’auto alla cui guida c’era il padre. A questo punto riesplodono vecchi conflitti familiare che sembravano sepolti, che vedono coinvolti anche Ryan, la sorella più giovane di Michael e sua zia Jane, sorella di Lisa. Dennis Lee, anche autore della sceneggiatura, esordisce nel lungometraggio dopo aver realizzato i corti Jesus Henry Christ (2003) e Good Is Good (2004), con una vicenda che si basa su fatti autobiografici. Ha dalla sua parte un gruppo di attori di primo piano da Willem Dafoe a Julia Roberts, da Emily Watson a Carrie-Ann Moss fino al promettente Ryan Reynolds (già visto in Amityville Horror e Smokin’ Aces) piuttosto convincente nel ruolo di Michael. Al di là di un’indubbia professionalità, però Fireflies in the Garden appare come una pellicola monocorde, che ripropone con un respiro simile tutta una varietà di conflitti familiari: gli scontri tra padre e figlio come quello in cui venne lasciato sotto la pioggia quando era adolescente, i litigi a tavola, lo scontro nella scena in cui la madre se ne voleva andare di casa dopo aver scoperto di essere stata tradita. Si è piuttosto lontani da quella coinvolgente intensità di Gente comune di Redford o La voce dell’amore di Franklin. Lee mantiene una stessa velocità emozionale, anche nelle scene drammaticamente più forti, porta a galla il passato attraverso ricordi, oggetti (le lettere della madre), situazioni che si ripetono ed è forse qui che si fa forte l’impressione che Fireflies in the Garden sia un film troppo chiuso su se stesso. Inoltre, il cineasta esaspera anche la portata simbolica (la specularità tra Michael e il figlio di Jane) e va in caduta libera in alcuni frammenti che vorrebbero essere fantastici come la scena del gioco con le racchette da tennis e le lucciole, ma che invece evidenziano impietosamente come il film sfugga al controllo del cineasta nell’istante in cui si allontana da quel suo tono immutabile nel racconto. Che è il suo limite e quindi anche il suo riparo.

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