BERLINALE 58 – "Standard Operating Procedure", di Errol Morris (Concorso)

Errol Morris torna al cinema cinque anni dopo il suo ultimo lavoro (The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara, che vinse nel 2004 l’Oscar per il Miglior Documentario) e lo fa scegliendo un materiale a dir poco incandescente come il caso di Abu Ghraib, la tristemente nota prigione irachena dove i soldati statunitensi si divertivano a immortalare i prigionieri in pose umilianti e a torturarli nei modi più creativi.

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Errol Morris torna al cinema cinque anni dopo il suo ultimo lavoro (The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara, che vinse nel 2004 l’Oscar per il Miglior Documentario) e lo fa scegliendo un materiale, a dir poco incandescente, come il caso di Abu Ghraib, la tristemente nota prigione irachena dove i soldati statunitensi si divertivano a immortalare i prigionieri in pose umilianti e a torturarli nei modi più creativi.
L’intento, chiariamolo subito, sembra esattamente l’opposto di quello poco ortodosso, e che ha sollevato infinite critiche, utilizzato da Michael Moore, il Re dei documentaristi di denuncia: Errol Morris si muove come nel il suo precedente lavoro, scavando a fondo nei personaggi che si trova davanti, per sparire quasi dentro di essi, azzerando completamente la propria istanza-personaggio (l’esatto contrario di quello che fa Moore, in soldoni). Ma non siamo qui a giudicare quale dei due metodi sia più ortodosso e coerente dell’altro, non ci interessa in questo momento: quello che ci interessa innanzitutto è prevenire tutta una serie di critiche che si scateneranno dopo la visione del film di Morris, critiche infondate oltre che prevenute. L’opera di Morris è molto più di un atto d’accusa contro la Guerra in Iraq, è un vero e proprio trattato antropologico sulla natura perversa e malsana dell’essere umano, sulla sua primordiale bestialità e sulla sua riprovevole attrazione per la sopraffazione. Standard Operating Procedure è un film che prova ad indagare l’abisso senza distanziarsene, ma anzi ponendosene letteralmente “di fronte”: e l’abisso sono loro, sono gli stessi soldati immortalati da quei celebri scatti. Sono loro il film, la pellicola stessa è intrisa dei loro corpi, delle loro azioni, dei loro pensieri. Non sono soldati cubani, canadesi o francesi, sono soldati statunitensi, belli e forti come solo il tacchino del 4 luglio sa rendere: tra loro c’è anche la “mitica” soldatessa Lynn, quella che in una famosa foto indicava convinta il pene di un prigioniero iracheno mentre in un’altra portava a spasso un recluso come fosse Fuffy, un pò più ingrassata, forse a causa del parto, per nulla imbarazzata di rivivere quei momenti. E non c’è retorica, non c’è faziosità: c’è solo il dramma di una nazione intera di fronte al vuoto di ideali, o di qualsiasi altra cosa, espresso da quegl’occhi spenti dove non trova posto nemmeno una lacrima.

Standard Operating Procedure non è solo un documentario. Perchè il materiale su cui lavora, quelle foto insomma, sono più che un mero documento, algide testimonianze di un dove e di un quando. Per questo Morris le ha “incorniciate”, così come ha incorniciato l’intero film, inserendo qua e là pesanti elementi di “fiction” (come la musica di Danny Elfman o certe ricostruzioni in studio): perché non è la verità a dover emergere, non c’è un messaggio da mandare, qui si tratta di tutta un’altra storia.
Questo non è un documentario, è un horror.

Non aprite quella gabbia, please

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