BERLINALE 58 – "Tout est parfait", di Yves Christian Fournier (Panorama)

Tout est parfait, film d’esordio del giovane canadese Yves Christian Fournier, è una pellicola dura ma necessaria sulla condizione di un'intera generazione di giovani, intrappolati da un sogno che si tramuta sempre in incubo…

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La vera grandezza di un festival si misura con la capacità di scoprire nuovi talenti al di fuori dei ristretti circoli del Concorso Ufficiale. E la grandezza di un festival come quello di Berlino sta proprio nella possibilità di incappare in una autentica rivelazione come quella di Tout est parfait, film d’esordio del giovane canadese Yves Christian Fournier.
Non è assolutamente facile confrontarsi con un tema come quello dell’adolescenza inquieta e turbolenta della ricca provincia del mondo, qui siamo in Canada ma la storia si sarebbe potuta svolgere in un qualsiasi angolo dell’Occidente industrializzato: con un materiale così incandescente il rischio che scivoli tutto dalle mani è molto più che una probabilità. Fournier, tenendo bene a mente la lezione di Gus Van Sant, partecipa attivamente alle parabole discendenti dei suoi protagonisti, eppure sembra distanziarsene nel modo in cui guarda a questi ragazzini scoppiati. Ed è grazie ad una fotografia spietatamente realista, che deve molto a Van Sant come detto ma anche e soprattutto alla pittura di Edward Hopper, che il giovane regista canadese riesce a filmare la lenta agonia di una generazione, una generazione non più bruciata ma oramai decisamente morta. Proprio come accadeva nelle tele di Hopper, i personaggi di Tout est parfait, sia i 4 suicidi che il loro comune amico nonché protagonista, sembrano sopraffatti dalla civiltà moderna, schiacciati da un peso che, seppur invisibilmente, li opprime fino alla morte.
Eccoli allora questi sedicenni dai volti angelici, ragazzini cresciuti sugli skate e sulle biciclette, divisi tra le mille icone della loro generazione, i cellulari e il football americano, le droghe e il sesso; eccoli ripetere “Tout est parfait”, tutto è perfetto, va tutto bene, ai loro genitori incapaci ormai di ascoltare e di parlare nè tantomeno di capire che i loro figli vanno via via trasformandosi in dead man walking. Ecco Thomas, Sacha, Alex e Simon, c’è chi si è impiccato chi si è sparato alla testa e chi si è buttato nel fiume, ma ecco soprattutto Josh, l’amico comune, l’unico sopravvissuto eppure sembra essere lui il fantasma, vittima di visioni o visione egli stesso?
Eppure nel presentare queste vite disturbate Fournier si tiene ben lontano dalla facile demonizzazione, dal moralismo e dal giudizio tagliente: decide, infatti, di restare attaccato alla loro epidermide, con una macchina a mano sempre leggera e mai invadente, che ne scruta i mutamenti e le angosce, gli scatti d’ira e le piccole-grandi nevrosi, i sogni e i turbamenti, tra Musil e Larry Clark passando per le visioni acquatiche di Jean Vigo, tirando fuori dagli attori, ed in particolare dal protagonista (ottimamente interpretato dal giovane Maxime Dumontier), delle recitazioni di pancia, graffianti, vibrate e tese come poche.
Il risultato è una discesa agli inferi della terra, un viaggio senza ritorno.

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