BERLINALE 59 – "Tatarak", di Andrzej Wajda (Concorso)

Uno dei film più belli del concorso, un’amara parabola sulla morte ma, contemporaneamente, sulla provvisoria e fugace ricerca della felicità sospesa tra finzione e vita reale, in cui emerge Krystyna Janda che mette a nudo se stessa nel ricordo del marito perduto, il direttore della fotografia Edward Klosinski a cui il film è dedicato

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Il concorso della 59° Berlinale si chiude con uno dei suoi film più belli, Tatarak dell’ottantatreenne regista polacco Andrzej Wajda, amara parabola sulla morte ma, contemporaneamente, sulla provvisoria e fugace ricerca della felicità. La pellicola è strutturata su un doppio livello. Da una parte racconta la storia di Marta, la moglie di un medico di un piccolo borgo che s’invaghisce di Bogus, un ragazzo molto più giovane di lei. Dall’altra  mostra l’attrice protagonista Krystyna Janda che, sola in una stanza, ricostruisce ‘a cuore aperto’ in modo semplice e toccante gli ultimi mesi di vita del marito Edward Klosinski, direttore della fotografia a cui il film è dedicato. Sia la Janda sia Klosinski sono molto conosciuti in Polonia ed entrambi avevano collaborato, tra gli altri, con Wajda in L’uomo di ferro e L’uomo di marmo.

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Tatarak è quindi sospeso tra finzione e vita reale. C’è un momento del film in cui c’è una spaccatura tra ciò che è dentro il set e ciò che fuori. La Janda, dopo la scena dell’annegamento, scappa sotto la pioggia e va a fare l’autostop. La parte più narrativa, tratta da un racconto di Jaroslaw Iwaszkewicz, disperde progressivamente i suoi residui letterari e diventa puro cinema en-plein air, evidente nella scena della festa in cui Marta e Bogus si conoscono e soprattutto in quella del fiume, in cui ci sono gli echi del cinema più libero e intimista del cineasta e degli squarci che possono far tornare in mente le impercettibili e temporanee vibrazioni del Jean Renoir di Une partie de campagne soprattutto per come Tatarak possa essere anche una sorta di ‘film d’acqua’. Al tempo stesso però il film possiede anche una vitale energia evidente soprattutto nei momenti in cui Bogus sta nuotando e nella scena dell’annegamento. La parte in cui la Janda è sola nella stanza e ricorda il marito ha quella fissità quasi da ‘kammerspiel’ dove però l’attrice mette a nudo se stessa e il proprio dolore. Si tratta di momenti privati di assoluta intimità, di una ricerca del tempo perduto da recuperare per poter essere in qualche modo rivissuto. Quando lei racconta che ha tenuto il numero di cellulare del marito e lo chiama ancora per poter sentire la sua voce, mette in gioco un serie di emozioni inarrestabili e materializza un amore che ha qualcosa di eterno. Vissuto, rivissuto, da rivivere.      

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