BERLINALE 60 – "Bal" (Honey), di Semih Kaplanoglu (Concorso)

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Yusuf a sei anni ha da poco cominciato la scuola. Suo padre Yakup è apicultore. È sicuramente il più riuscito dei tre film che compongono la trilogia, iniziata dal regista turco nel 2007. Sa estrarre l’essenziale dal pullulare delle sensazioni, sa appassionare tenendo le distanze. È la sua grazia. Guardare con l’incanto e col disinganno della nostalgia

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balYusuf a sei anni ha da poco cominciato la scuola. Suo padre Yakup è apicultore. Egli lavora nella foresta inoltrata e si arrampica con una fune, ogni volta per raccogliere il miele, sugli alberi più alti. Per Yusuf la foresta e il padre stesso sono imprescindibili fonti di conoscenza e di mistero. Una mattina il bambino racconta un suo sogno, sussurandolo nelle orecchie del padre. Quest’ultimo di li a poco è costretto a partire per trovare maggiore fortuna nel raccolto da qualche altra parte. Il figlio si chiude in un mutismo. Dopo un certo periodo tutti sono preoccupati per Yakut che non torna a casa. Yusuf decide di partire da solo alla sua ricerca e poco a poco sembra prendere forma quel sogno che aveva fatto poche settimane prima. È sicuramente il più riuscito dei tre film che compongono la trilogia, iniziata dal regista turco nel 2007 con Yumurta e continuata con Sut (Milk), presentato a Venezia in Concorso nel 2008. Yusuf è bambino, dopo averlo visto affermato poeta in Yumurta e aspirante tale in Sut. Viaggio a ritroso, sospeso in un sogno durato in eterno o solo un istante, in cui Kaplanoglu ritrova il latte sempre sulla tavola, come segno transizionale, che trapassa l’esistenza dal puramente soggettivo all’oggettività, dal futuro al passato. Girato nella regione dell’Anatolia, Kaplanoglu è proiettato verso l’armonia degli elementi. I personaggi, le facce, i luoghi, le motivazioni, la stagione, la luce, i movimenti di macchina e la poesia si muovono cercando integrità, unità, fusione l’uno nell’altro, per poi spingersi a filmare l’invisibile, lo straordinario nell’ordinario. Mirabile e salvifica esplorazione della natura dentro se stessi. Contemplare con leggerezza d’animo, senza però abbandonarsi mai fino in fondo, evocare minimalismi esistenziali, rallentare il cuore del cinema, compattare e rivelare in ogni istante un percorso narrativo e visivo a volte forse troppo interiore, con il mondo esterno che lotta vanamente senza trovare spiragli di generosità. Non sembra mai di vivere in una effettiva prigione dello sguardo e comunque il regista turco lascia comunicare blocchi percettivi: ricorrente è la macchina immobile, o libera di lenti e brevi movimenti, che abbracciano il paesaggio e le entrate in campo laterale fino a tagliare lo spazio. Qui l’incedere del cinema si fa pacatamente autoriale frenando la sensazione di misurare eccessivamente le derive, regalandoci l’illusione, l’espansione dell’immaginario: le memorie non si squarciano, l’immagine non prende definitivamente (il) corpo, si adagia però con leggerezza e con rigorosa cura. È stupefacente il salto di qualità compiuto dall’autore che risulta essere una delle più piacevoli sorprese di questo concorso, almeno ad oggi. Il cinema è tenero, illuminando il grido dissonante che si fa eco dell’assurda tragedia (che a nostri occhi si materializza in fretta), mentre una gelida
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indifferenza traspare nella bellezza delle cose così come sono. Nell’ampiezza dello sguardo classico, che sembra posarsi su tutto, non c’è posto per il tormento che si sente arrivare dal passato (o magari dal futuro). Nell’apoteosi del dettaglio privato, della fisiologia spicciola, della vicinanza promiscua e accaldata, delle lacrime e del sudore, questo cinema sa estrarre l’essenziale dal pullulare delle sensazioni, sa appassionare tenendo le distanze. È la sua grazia. Guardare con l’incanto e col disinganno della nostalgia, cioè con quell’amore, quel distacco che sarebbero impossibili sul piano dell’elementarità immediata. La bellezza di questo cinema è la perfezione delle cose che hanno bisogno di tempo indefinibile per crescere e formarsi, come la piccola barca di legno che Yakut sta modellando. La poesia della macchina da presa non è quella del possesso, ma della nostalgia: tensione sempre inappagata verso un oggetto sfuggente, l’aspirazione ad un assoluto irraggiungibile, il desiderio che si tormenta e si compiace della sua stessa inquietudine, nello scompenso fra immagine e realtà, sogno e verità. 
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