BERLINALE 60 – "Please Give", di Nicole Holofcener (Concorso)

catherine keener e sara steele in please give
Con Please Give – il quarto film di Nicole Holofcener, che si è dedicata soprattutto a Sex and the City – la crisi economica entra definitivamente nella commedia americana. Quello che fino ad ora era rimasto uno stato d'animo, diventa il leit-motiv delle storie che si intrecciano sulla Fifth Avenue. La Holofcener è onesta e sa entrare nell'emotività delle protagoniste, ma spesso ammicca all'autoassoluzione della superficialità.

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catherine keener e sara steele in please giveCon Please Give, la crisi economica entra di prepotenza nella commedia americana. Questo sembra essere il messaggio del quarto lungometraggio di Nicole Holofcener, che anche questa volta ha scelto di lavorare con l’attrice Catherine Keener. La regista viene da una lunga carriera nel piccolo schermo, e il film subisce l’influenza della scrittura e della messa in scena da serial televisivo. In qualche modo, i possibili sviluppi delle storie che si intrecciano tra gli eleganti palazzi della Fifth Avenue (in una città che non perdona chi ha degli scrupoli, c’è anche chi è costretto a lasciarla, come la timida Rebecca Hall, sempre disponibile a dare…) potrebbe reggere benissimo l’evoluzione di un’intera stagione. Il tratto distintivo è che la Holofcener, reduce da una notorietà maturata soprattutto con Sex and the City – il compiaciuto apripista di una generazione di shop-aholic – sembra  voler scrivere la propria ammenda da viziata ragazza radical di Manhattan (è la figliastra del produttore Charles H. Joffe). Il dissesto economico – specie in una città come New York, che ne è stata l’origine – fino a questo momento era rimasto un sentimento generale, una voglia di normalizzazione che spesso ha messo la maternità al centro dei suoi temi. Con Please Give diventa oggetto di attenta e aperta riflessione, in cui la regista si identifica direttamente con la sua protagonista, con il suo senso di colpa, con i suoi ipocriti tentativi di redenzione, con la soffera consapevolezza di come sia impossibile lasciare il proprio mondo e il proprio benessere. La Holofcener fa il ritratto di una famiglia benestante che specula sulla morte (vende a prezzi altissimi i mobili usati di persone appena decedute, un vintage amatissimo dall’alta borghesia di New York…) e che aspetta con ansia che si liberi la loro nuda proprietà, occupata con ostinazione da una novantenne. La donna si rende perfettamente conto del cinismo legato alla loro attività, e cerca in ogni modo di riscattare il suo senso del peccato: cerca invano di fare del volontariato, elargisce delle elemosine esagerate ai senzatetto, è logorata dal desiderio di liberare la figlia dall’ossessione del consumismo. La Holofcener ha una grande capacità di entrare nell’emotività femminile delle proprie protagoniste, sa scrivere dialoghi brillanti da Upper West Side, ma alcune volte scade in didascalie eccessive. Ha il pregio di essere onesta, di negare le facili redenzioni, ma impegnata com'è a parlare prima di tutto di se stessa e del mondo che conosce, spesso chiede con troppa insistenza l’assoluzione dalla superficialità in cui è immersa. Alla fine, sembra che davvero non ci sia niente di male a comprare alla propria figlia dei jeans da duecento dollari, per renderla felice. E' una conclusione ambigua che evita una morale troppo facile, ma è anche ammiccante e fin troppo astuta.

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