BERLINALE 60 – "Submarino", di Thomas Vinterberg (Concorso)
Il regista danese non riesce mai a concretizzare l'esasperato realismo del romanzo omonimo di Jonas T. Bengtsson da cui il film è tratto e si caratterizza per uno sguardo invadente, che trasforma anche i momenti più intimi in autentiche esplosioni melodrammatiche e che da l'idea di spiare sempre, più che essere complice, dei due fratelli protagonisti
Fratelli perduti. Sin da Festen il tema dominante del cinema del danese Thomas Vinterberg sembra essere quello di famiglie alla deriva. Separazioni laceranti, rivelazioni improvvise e uno stile che, pur essendosi da tempo allontanato dal Dogma come ha confermato il precedente Riunione di famiglia, risulta essere al tempo stesso ridondante ma anche schematicamente descrittivo. Tratto dal romanzo omonimo di Jonas T. Bengtsson, pubblicato nel 2007, il film ha come protagonisti due fratelli, Nick e suo fratello minore, che si sono perduti dall'infanzia e si riincontrano in prigione. Entrambi sono stati segnati dall'alcolismo della loro madre. Il primo vive in un sobborgo di Copenhagen, frequenta la palestra di body-building, vive alla giornata e ha scatti di violenza improvvisi. L'altro invece è completamente schiavo della droga anche se è legatissimo al figlio di 6 anni e cerca per lui un'esistenza migliore. Già il titolo rende l'idea di come i protagonisti vivano in uno stato di quasi soffocamento; la procedura chiamata "submarino" infatti consiste nel tenere sott'acqua la testa di un uomo fino ad arrivare ai limiti dell'asfissia. Del romanzo, volutamente caratterizzato da un realismo esasperato, restano solo i segni esteriori. Poi Vinterberg accentua ogni loro pulsione, ogni movimento, con spostamenti di macchina pesanti, dei quali sembra sentirsi il runmore anche quando li segue per strada e che sembra comunque spiare più che stare vicino ai suoi personaggi. Basta vedere il momento in cui il fratello minore sta spacciando per strada, frammento che dovrebbe essere essenziale per velocità e concretezza e che invece il cineasta danese sottolinea insistentemente con dettagli sui volti, sulle mani, sui soldi. Oppure raggiunge quasi le soglie dell'invadenza nello sguardo in carcere tra i due fratelli, trasformando un momento intimo in un'esasperazione melodrammatica. Il realismo del romanzo è solo una cornice. Nel grigio del quartiere di Copenhagen, negli interni dimessi, c'è invece un lavoro programmatico per esasperare quel 'cinema della crudeltà' che però non raggiunge mai il suo obiettivo. Resta soltanto qualche timido frammento, il rapporto tra padre e figlio, emotivamente coinvolgente però solo a livello di scrittura. Vinterberg invece lo trasforma in piani prolungati, come se aspettasse che succeda improvvisamente qualcosa, sperando che gli attori siano delle marionette da far muovere dalla sceneggiatura. E ciò accade dall'inizio. Ma non basta una luce bianca, un'immagine a prima vista concreta che si frantuma per mostrare simbolicamente il destino e la morte. Ci vorrebbe altro, tutto quello che non c'è un Submarino in cui la mediocrità si accompagna alla presunzione.