BERLINALE 63 – "Harmony Lessons", di Emir Baigaslin (Concorso)

harmony lessons

C'è sicuramente un eccesso didascalico nel film di Baigaslin, una sorta di Delitto "senza" castigo che procede lungo la sua linea narrativa, dritto fino al compimento del paradigma. Ma al tempo stesso s'intravede qualcosa di affascinante, le tracce di un possibile controcanto ironico, capace di interrompere il grigiore uniforme dei toni, degli spazi, del mondo. E, altrove, i segni di un ritualismo che dà alle immagini un ritmo sfalsato rispetto a qualsiasi ipotesi realistica, quasi ipnotico

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harmony lessonsAslan è un adolescente taciturno e solitario. Durante una visita medica viene umiliato dai suoi compagni, capeggiati dal bullo Bolat, che taccheggia l'intera scuola per portare soldi ai suoi "fratelli più grandi". Scioccato dall'accaduto, Aslan si trova sempre più solo, anche perché Bolat ha fatto espresso divieto a tutti di dargli confidenza. L'unico a contravvenire al divieto è il nuovo arrivato Mirsain, che infatti incorre nelle ritorsioni dei bulli. Aslan comincia a manifestare una personalità oscura, ai limiti del sadismo. Cattura e sevizia animali, fabbrica armi artigianali. E quando le angherie di Bolat diventano intollerabili, medita un'atroce punizione.

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Il primo lungometraggio del kazako Emir Baigaslin assomiglia a un teorema. Dato un determinato ambiente violento, cosa può succedere a un carattere già instabile? La soluzione è matematica. E non c'è bisogno di grandi voli di fantasia, di sogni premonitori. Del resto l'evoluzione di Aslan è segnata proprio dalla sua predisposizione per le materie scientifiche, che insegnano l'evoluzionismo e nutrono la tecnica del potere. La scienza è sempre amorale. Viene connotata solo dalle intenzioni degli uomini. "L'energia che muove le cose è il denaro", dice il professore all'inizio. Bolat sembra adattarsi perfettamente a questa regola. Aslan, invece, riporta le cose a una dimensione naturalmente amorale. E armonica.

C'è sicuramente un eccesso didascalico nel film di Baigaslin, una sorta di Delitto "senza" castigo (e quindi perfetto), che procede lungo la sua linea narrativa, dritto fino al compimento del paradigma. Percorso, d'altro canto, segnato da tutta una serie di fuoripista, d'implicazioni appena accennate: l'abuso sistematico della polizia, il peso della religione, il fondamentalismo (i fratelli in carcere chi sono?). Briciole di realtà, lasciate per strada.  Ma, al tempo stesso, s'intravede qualcosa di affascinante, le tracce di un possibile controcanto ironico, capace di interrompere il grigiore uniforme dei toni, degli spazi, del mondo. E, altrove, emergono i segni di un ritualismo che dà alle immagini un ritmo sfalsato rispetto a qualsiasi ipotesi realistica, quasi ipnotico. Certo, stonano i simbolismi marcati (la testa mozzata della lucertola, la pecora che cammina sulle acque), ma rimane il fascino di uno sguardo che oscilla tra la cruda concretezza e il formalismo, che mostra i corpi, ma li costringe alla meccanica del movimento. Lezioni di armonia.

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