BERLINALE 63 – “Layla Fourie”, di Pia Marais (Concorso)


Pia Marais trova nell'apatia a tratti davvero sinceramente irritante della sua protagonista Rayna Campbell uno specchio preciso della propria concezione di regia: se l'intento era giocare con i mezzitoni di una vicenda che rimane volutamente avvolta nel mistero, il risultato ha un'unica nota sul proprio spartito che si ripete sempre piattamente identica, ed è un po' poco per giocare come si deve al noir destrutturato

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Il terzo lungometraggio firmato dalla sudafricana Pia Marais (per lungo tempo di stanza a Berlino, questo film rappresenta per lei il ritorno al Paese natale per tentare di fare cinema anche in casa propria) viaggia attraverso quel familiare torpore che spesso accompagna gli abitacoli di un'automobile nel corso di una lunga traversata notturna. E' la situazione di partenza, all'incirca, della vicenda, ma è soprattutto la parabola a livello immaginifico del generale assopimento semiotico che narcotizza situazioni e personaggi alla ricerca di una raffinata ambiguità che invece riesce unicamente a tradursi in una asfissiante fissità: se le numerose sedute alla macchina della verità non replicano nemmeno lontanamente le affascinanti potenzialità esplorate nel dimenticato L'impostore dei fratelli Pate, la lunga pastoia da incubo kafkiano burocratico in cui la protagonista finisce invischiata con figlio preadolescente al seguito potrebbe voler ambire a una versione thriller (con accenni di blanda denuncia politica sui rigurgiti dell'apartheid, pensa un po') de La noir de… di Sembène.

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Tutto parte da un letale incidente notturno durante il quale Layla, addormentatasi al volante, investe e uccide uno sconosciuto fermo ai margini della strada al buio: la mancata denuncia dell'accaduto da parte della donna sarà il via per una serie di minacciosi quanto oscuri eventi.
Pia Marais trova nell'apatia a tratti davvero sinceramente irritante della sua protagonista Rayna Campbell uno specchio preciso della propria concezione di regia: se l'intento era giocare con i mezzitoni di una vicenda che rimane volutamente avvolta nel mistero, il risultato ha un'unica nota sul proprio spartito che si ripete sempre piattamente identica, ed è un po' poco per giocare come si deve al noir destrutturato.
L'assenza di sussulti o di qualunque possibile climax zavorra pesantemente la messinscena nella direzione di una confezione priva di qualsivoglia intuizione o trovata, per la quale l'aggettivo “polverosa” non potrebbe che calzare meglio: del Sud Africa resta poco o nulla, nemmeno una cartolina come si deve; e questo “spreco” è senza ombra di dubbio la pecca maggiormente imperdonabile della Marais.

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