BERLINALE 63 – "Maladies", di Carter (Panorama Special)

james franco in Maladies

Pittore scultore artista multimediale che predilige la vista degli arti per fare il punto sull’animo umano, il regista orrebbe scavare col cucchiaino da dolce nelle afflizioni del titolo – concentrate in un baroccheggiante ospizio casalingo -, ma fa agitare le mani ai suoi personaggi come burattini dal filo striminzito. Il tormento è sempre troppo incorporeo per tradursi in prostrazione, troppo scoperto per assaporare l’avvilimento.

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james franco in MaladiesUna cosa non esiste finché non è creata. Una cosa, pertanto, non esiste finché qualcuno non la crea. Immagina una vita senza Moby Dick, dice James (Franco) all’amica Catherine (Keener) attivando un cortocircuito stridente tra vita (simulata) e immaginazione (carente), e innescando probabilmente l’unico momento di sana partecipata mestizia suscitato da Maladies. Immagina una vita senza Moby Dick. Ecco. Ora prova a immaginare una vita senza la seconda escrescenza cinematografica di Carter.

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Pittore scultore artista multimediale che predilige la vista degli arti per fare il punto sull’animo umano. Vorrebbe scavare col cucchiaino da dolce nelle afflizioni del titolo – concentrate in un baroccheggiante ospizio casalingo -, ma fa agitare le mani ai suoi personaggi come burattini dal filo striminzito. Il tormento è sempre troppo incorporeo per tradursi in prostrazione, troppo scoperto per assaporare l’avvilimento.

James (Franco), ex attore di soap opera allontanato dalle scene per uno squilibrio che sa più di tedio velleitario che di depressione schizoide, s’immerge nella periferia americana color pastello e decide (con incostanza e presunzione) di scrivere un romanzo. Insieme a lui la sorella, bambolina horror e ragazza puntualmente interrotta dall’altrui rimprovero, vanta un disagio mentale presentatoci come intermittente ma di cui non scorgiamo mai il punto luce. Attorno a loro qualche amico sciattamente velleitario e ambiguo, per una gelida villeggiatura permanente in cui fluttuano all’unisono (eppur non generano ritmo alcuno) spettri puntuti come matite smussate (va da sé che la scelta della matita, nel film, occupi una porzione ridicola di tempo).

E’ ornamento/cinema, Maladies, che non affligge né scalfisce nonostante la ricercata plasticità del quadro. Vorrebbe instaurare un monologo con la tua coscienza ma ti lascia appeso all’altro capo del telefono senza neppure la consolazione della segreteria. Perché il fruscio che viene dalla cornetta è suono balsamico, riverbero del sé e pertanto si basta (e al protagonista basta il ronzio per ritrovare la voce interiore). Ma è un malato immaginario sempre in debito d’immaginazione. E questo patinato manicomio di maschere ci fa venir voglia di aprire la finestra della reggia e far entrare il carnevale vero. 

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