BERLINALE 63 – "Mes scéances de lutte", di Jacques Doillon (Panorama)

mes scéances de lutte

Tra il teatro e la body art, la letteratura filosofica e la pornografia, Doillon mette in scena quest'altro gioco di seduzione e repulsione, che prova a scavare nei rapporti di forza tra i sessi, ma soprattutto nei limiti sottili tra la carnalità istintiva, la paura e il ritualismo convenzionale della messinscena

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mes scéances de lutteUna ragazza bionda, volubile e capricciosa, torna nel paese natale, dopo la morte dell'odiato padre. Non ha alcuna interesse all'eredità, se non per il pianoforte del nonno, l'unico ricordo a cui è legata. Naturalmente incontra lui, che conduce la sua vita appartata nei campi. Il passato si riaffaccia. Cosa c'è stato tra i due? E cosa rivogliono l'uno dall'altra? Amore, comprensione, desiderio? Ogni loro incontro si tramuta in un'estenuante lotta corpo a corpo.

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Tra il teatro e la body art, la letteratura filosofica e la pornografia, Doillon mette in scena quest'altro gioco di seduzione e repulsione, che prova a scavare nei rapporti di forza tra i sessi, ma soprattutto nei limiti sottili tra la carnalità istintiva, la paura e il ritualismo convenzionale della messinscena. Stabilire fino a che punto l'appuntamento quotidiano dei due protagonisti rispetti la regola del gioco oppure scivoli verso la deriva incontrollata, vuol dire conoscere alla perfezione il confine tra il finto e il vero. Ma il finto e il vero ormai si sono dissolti, per dare vita a un tutt'uno, che è l'immagine, ma anche lo sguardo, la parola, l'atteggiamento del corpo. E anche quando paiono subentrare l'eros e la morte (lei che soffoca lui, come ne L'impero dei sensi, lui che sbatte la sua testa contro il muro), occorre tenere gli occhi aperti, fino alla soluzione (o dissoluzione?). Ormai Doillon cerca con sempre maggior insistenza il punto d'equilibrio tra il cielo e la terra, tra l'affermazione teorica e la concretezza materiale dell'immagine. E il suo sguardo si aggrappa ai due attori, costretti davvero a una performance estenuante, per dar "corpo" a tutte le implicazioni. Sara Forestier e James Thiérrée, con il loro sforzo prolungato, davvero donano al film uno slancio travolgente. Nonostante il resto assomigli a una prigione. Doillon gioca d'ironia, immagina uno smalto rohmeriano. Ma rimane vittima della teoria. La scrittura resta un peso che rischia di affondare il tutto nello sterile esercizio. E, con tutto il rispetto, non ce la sentiamo di assecondarlo. 

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