BERLINALE 63 – “Paradise: Hope”, di Ulrich Seidl (Concorso)


Trasformare ogni rituale di passaggio di un'adolescenza desolata in un tremendo vuoto da cadavere scavato da autopsia, non potrà mai convincerci che la vita sia così essiccata come questo cinema vuole descrivere. L'ostinazione di Seidl nei confronti della mortificazione dell'esistenza e dell'esistente non può che pararcisi davanti in questo modo in tutta la propria cieca ottusità

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La domanda davanti alla quale si rimane più costernati è quella, ovviamente, sul senso definitivo della trilogia Paradise, ora che il trittico è completo: pur continuando chi scrive a credere nell'assoluta inutilità del cinema, resta comunque da chiedersi cosa abbia voluto dimostrare Seidl con questi tre “ritratti” (la parola è grossa) femminili: di fatto, il tour de force Cannes-Venezia-Berlino dello sprezzante regista austriaco si chiude con un coro di adolescenti sovrappeso che intonano if you're happy and you know it clap you fat…

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E' tutto grasso che cola, allora, caro Ulrich, un cinema che ancora una volta vuole definirsi schifato dai codici stessi della contemporaneità (fanno da questo punto di vista infinitamente più paura alcuni reality satellitari come Obesi o Una famiglia extralarge) e dall'enorme campo di concentramento in cui si è trasformata la società – se abbiamo capito bene (abbiamo capito bene?): ma mettere in scena l'addestramento degno del primo atto di Full Metal Jacket con cui i dietologi della clinica in cui è ambientato il film cercano di far perdere drasticamente peso alle grasse ragazze protagoniste non è certo una metafora di particolare potenza (per contro, ad alcuni istanti che vorrebbero apparire più teneri rispondiamo con la fragile sincerità del bel lavoro di Mateo Zoni, con alcuni tratti in comune ma di segno opposto, Ulidi piccola mia). Né accartocciare un'immagine così desolata dell'adolescenza, che trasforma ogni rituale di passaggio (la prima ubriacatura con le amiche, la prima cotta, i primi timidi approcci con il corpo maschile, le confessioni, le scappatelle, i dubbi sul sesso) in un tremendo vuoto da cadavere scavato da autopsia, potrà mai convincerci che la vita sia così essiccata come questo cinema vuole descrivere, annusando la ragazza morente distesa nei boschi in quello che è l'unico atto d'amore che riesce ancora a comprendere e replicare – quello di un cane.

Frenando con assoluta consapevolezza gli eccessi provocatori della propria messinscena in tutti e tre gli episodi del progetto Paradise, il cinema di Seidl raggiunge così il risultato paradossale di apparire ancor maggiormente da rifiutare e allontanare con forza: la sua ostinazione nei confronti della mortificazione dell'esistenza e dell'esistente non può che pararcisi davanti in questo modo in tutta la propria cieca ottusità.

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