BERLINALE 63 – “Side Effects”, di Steven Soderbergh (Concorso)


Per Soderbergh l’effetto collaterale e’, diventa ormai anche banale ripeterlo, il cinema stesso, controindicazione di un metodo curativo dell’immagine che segue come traiettoria unica quella che alla fine si rivela puntualmente come la piantina degli androni di un manicomio, una societa’ di scarti industriali, alimentari, umani da mettere in circolo incessantemente per poi sostituirli vertiginosamente e senza raccolta differenziata

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Side Effects e’ probabilmente il film definitivo dell’ultimo Soderbergh: unisce in se’ Contagion e The gilfriend experience fingendo di essere ancora Traffic o Erin Brokovich. Per farlo, Soderbergh si affida a un corpo gia’ pesantemente contagiato all’interno della fulminante parabola compiuta in una manciata di film, quella Rooney Mara su cui lo scaltrissimo cineasta lavora di incessante scavo sulla superficie come gia’ fatto ultimamente con Sasha Grey o Gina Carano. Tutt’intorno, un’ennesima storia di corale e depravata contemporaneita’, con un gusto divertito per la perversione che ovviamente fa scattare in automatico il collegamento con Brian De Palma (indubbio, basti guardare alla sequenza della colluttazione tra Rooney e il sempre clamoroso Channing Tatum).

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Diventa allora progressivamente piu’ chiaro come sia la figura, ogni volta piu’ intollerabile all’interno del sistema-Soderbergh, di Jude Law quella che paradossalmente ne rappresenta al meglio le caratteristiche (avendo cosi’ una buona volta sostituito, ci sembra del tutto, il sorrisetto sornione di George Clooney in questa funzione): un virus che si insinua tra le righe (le righe di cosa? non e’ certo piu’ il caso di invocare una scrittura… e’ anzi quasi il momento di iniziare a ragionare di antialfabetizzazione blockbuster) e non cede fino a quando non avra’ vinto la partita, e trasformato tutti gli altri (attori, spettatori…critici cinematografici!) in zombie con le orbite vuote sotto torazina.
Per Soderbergh l’effetto collaterale e’, diventa ormai anche banale ripeterlo, il cinema stesso, controindicazione di un metodo curativo dell’immagine che segue come traiettoria unica quella che alla fine si rivela puntualmente come la piantina degli androni di un manicomio (com’era anche la Tampa di Magic Mike), una societa’ di scarti industriali, alimentari, umani da mettere in circolo incessantemente per poi sostituirli vertiginosamente e senza raccolta differenziata.

Quello che lo rende un cineasta ad oggi irrunciabile e centrale e’ proprio allora la sua accessorieta’, il suo rivelarsi superfluo come i mille brunch di lavoro incravattati in locale raffinato che puntellano la prima incredibile sezione di Side Effects, a cui Soderbergh sostituisce poi la sua concezione di un percorso di psicanalisi, ovvero una seduta a meta’ tra l’intervista del giornalista a Sasha in Girlfriend Experience, e una sequenza di lotta di Knockout; ma sono solo due delle possibili esponenziali versioni del film, che ha tempo poi di trasformarsi in una specie di court drama imploso e spiraliforme con gli psicologi al posto degli avvocati, e di chiudersi (aprirsi?) infine (?) a tracce di melodramma lesbo.
Ma chi se ne frega della fine, diremmo quasi della scadenza del farmaco, se continua a darci alla testa, magari anche a farci vomitare, se protrae artificialmente la parasomnia del nostro Secolo. Steven Soderbergh sembra aver fatto suo, cinicamente ma con pazzesca, crudelissima lucidita’ il celebre motto DuPont, citato nel film – non a caso – proprio da Jude Law: better living through chemistry. Che e’ poi, ma non fateglielo sapere, la maniera in cui continua a campare il cinema ancora oggi, nonostante tutto.

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