BERLINALE 64 – Aloft, di Claudia Llosa (Concorso)

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Quel simbolismo marcato che riusciva a trovare una sua pur discutibile concretezza ne Il canto di Paloma, qui si proietta verso l'esterno, si ramifica nelle derive new age del plot e si perde definitivamente sulla superficie di un'immagine epifanica che sembra un'altra derivazione convenzionale del cinema di Malick

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aloftNana lavora in una fattoria ed è madre di due bambini. Il più grande, Ivan, ha la passione della falconeria, arte insegnatagli dal nonno. Il più piccolo, invece, ha gravi problemi di salute, che per i medici non possono essere risolti. Così Nana tenta la carta estrema, affidarsi all'esperienza di un uomo che sperimenta un metodo curativo alternativo centrato sulla natura e sull'arte. Ma sarà proprio lei a scoprire di avere poteri guaritivi, quasi taumaturgici. E, a un certo punto, deciderà di dedicare la sua vita alla guarigione degli altri. Ma Ivan? Cosa farà da grande, a parte allevare falchi?

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A cinque anni di distanza dall'Orso d'oro vinto con Il canto di Paloma, Claudia Llosa torna in concorso a Berlino, schierando però i pezzi grossi, un apparato produttivo e un cast di tutto rispetto, dominato dalla sempreverde Jennifer Connelly, e poi Mélanie Laurent, Cillian Murphy… Rimane il punto fisso dell'indipendenza, ottima bandiera dietro cui ripararsi. Ma nel cambio di dimensione e nello spostamento geografico, la Llosa sembra recidere definitivamente quel già labile legame con il mondo e l'immaginario nativo, per lasciarsi andare alla luccicante e ricercata bellezza di uno stile "internazionale", perfetto per ogni latitudine. Del resto, sono da anni che la regista peruviana vive e opera in Spagna. Ma questo non vuol dire nulla. Come se fosse necessario proclamare le proprie radici in un film. Se non fosse che la Llosa rinuncia proprio a quel che costituiva, aldilà della maniera, il cuore de Il canto di Paloma, quell'interesse alla "rivelazione di eventi emblematici, attraverso fugaci sensazioni del corpo, movimenti di macchina lenti e impercettibili pronti a catturare il minimalismo quotidiano". E quel simbolismo marcato che riusciva a trovare una sua pur discutibile concretezza, fondendosi con i gesti e con le cose (la celebre patata), qui si proietta verso l'esterno, si ramifica nelle derive new age del plot e si perde definitivamente sulla superficie di un'immagine epifanica che sembra un'altra derivazione convenzionale del cinema di Malick (quanti cattivi imitatori hai creato, Terrence?). Solo che qui non ci sono campi di grano mossi dal vento. Ci sono le sterminate distese di ghiaccio del Canada settentrionale. Perché la Llosa ha ben deciso di tirare le somme del film addirittura a Nunavut, quasi alla fine del mondo. Cerca di dare un debole appiglio narrativo a questo deriva esotica. Ma resta l'impressione di una fuga, la necessità e il problema di tenere al riparo la metafora sull'amore, il dolore e la vita, isolarla proprio dal caos della vita vera. E il film sprofonda innocuamente sul ghiaccio, reggendosi sulle interpretazioni eccellenti degli attori, la Connelly su tutti. Ma non sempre bastano gli attori a garantire la guarigione.

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