BERLINALE 64 – Dans la cour, di Pierre Salvadori (Berlinale Special Gala)


Salvadori traveste da classica, stralunata commedia con Catherine Deneuve una sceneggiatura che non ha paura di affondare invece nel baratro dell’ossessione e del disagio mentale. Il risultato è sorprendente, perché Salvadori sceglie di stemperarne la disperazione attraverso un nuovo racconto, caro al cinema francese brillante, delle mille umanità e relative stramberie che è facile registrare dai cortili dei condomini, ma questo non gli impedisce di portare avanti sino in fondo il dramma

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Pierre Salvadori, abituale regista delle sortite leggere di Audrey Tatou, traveste da classica, stralunata commedia corale “da cortile” una sceneggiatura che non ha paura di affondare invece nel baratro dell’ossessione e del disagio mentale. Il risultato è sorprendente.
Catherine Deneuve affronta il difficile ruolo di Mathilde che sembra venire fuori da un cinema che non si fa piu’, legato a personaggi di donne forti e fragilissime insieme, problematiche e sul limite della follia, e alle interpretazioni maiuscole di interpreti larger than life che le hanno affidate alla storia. Mathilde è infatti una moglie under the influence che ha bisogno di riempire la grande quantità di tempo di cui si è ritrovata a disporre da quando è in pensione, gestendo con piglio da imprenditore un’associazione di volontariato. Una notte guardando sul muro di fronte al proprio letto nota una crepa che partendo dal soffitto si allarga lungo tutta la parete. Da quel momento smette di dormire, e di interessarsi di qualunque altro aspetto della propria vita: questa frattura nell’ordine delle cose si trasformerà per la donna in un vero e proprio chiodo fisso. Portandola a chiedere il parere di costosi specialisti, credere alle improbabili ipotesi sull’imminente affondamento del condominio parigino in cui abita secondo libraie esoteriche e sedicenti esperti, mandare in crisi il proprio matrimonio e mettersi in ridicolo con la comunità degli abitanti del palazzo. Fino alla latente probabilità del ricovero in clinica. Ma in realtà si tratta soltanto di una crepa sul muro.

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E’ una storia potente, pirandelliana, dalle potenzialità anche estreme. Salvadori sceglie di stemperarne la disperazione attraverso un nuovo racconto, caro al cinema francese brillante, delle mille umanità e relative stramberie che è facile registrare dai cortili dei condomini, sbirciando dalle finestre degli appartamenti (il maniaco del decoro, lo spacciatore sempre strafatto, il vigilante fanatico di una setta che aspetta l’arrivo degli alieni…). Ma questo non gli impedisce di portare avanti sino in fondo la disillusione scambiata per malessere psichico dei suoi personaggi, fino all’esplosione del dramma vero e proprio.

L’intuizione vincente è affiancare alla performance inaspettata della Deneuve un personaggio altrettanto depresso ma di segno apertamente comico, grazie alla figura buffa e sgualcita, intorpidita dalla vita sino ad un’apparente, indolente, dolorissima accidia, di Gustave Kervern, che dona con la sua interpretazione un genuino sentimento ad un carattere che, piu’ incattivito, potrebbe essere spuntato fuori da uno dei suoi film da regista. Kevern è Antoine, giunto a fare il portiere del condominio per poter trascinare con un lavoro tranquillo e un posto dove stare la propria vita sino alla fine, buttandola via tra ingenti quantità di droga e una dieta a base di cibo spazzatura. Nel suo passato abita un immenso abisso. L’arrivo di Antoine però risolverà, suo malgrado, le questioni di molti dei suoi condomini: soprattutto, Mathilde troverà in lui l’unica persona seriamente disposta ad ascoltarla, e ad esserle amico. Il destino di Antoine sembra allora quello di diventare il muto, atonale confidente di queste persone, e di portarsi addosso questa disperazione nel segreto del proprio piccolo appartamento di portineria. Ma fino a quanto le spalle curve dell’uomo potranno reggere il peso del dolore suo e degli altri?

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