BERLINALE 64 – Jack, di Edward Berger (Concorso)

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Il vero cuore del film è il piccolo Ivo Pietzcker, che con una grinta notevole, ostinata, riesce a dare al suo personaggio una prontezza pratica sorprendente e una concretezza adulta. Quasi fosse un corpo resistente, una specie di ultimo eroe action costretto ad attraversare i pericoli della città per mettersi in salvo

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jackDi ragazzi che corrono, al cinema se ne sono visti tanti. E ogni volta di più si prova un senso di partecipazione rabbiosa. Come se quel disperato bisogno di liberazione espresso in ogni corsa contenesse in sé una promessa di riuscita. Se quella corsa dovesse poi finire nel deserto di una spiaggia, nel fermo immagine di un Antoine Doinel smarrito, nulla toglierebbe forza alla tensione spontanea e ossessiva del gesto (Naderi?).

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Di ragazzi abbandonati, di difficili percorsi di solitudine, al cinema se ne sono visti parecchi. E su questo punto, bisognerebbe avere una mano leggera per non cadere nell'eccesso o una straordinaria sintonia di sguardo con i propri personaggi e interpreti (Kore-eda?), per raggiungere altri strati di verità emotive inaspettate, oltre lo stereotipo.

 

Ecco, Jack sta al centro esatto di tutto questo: è un ragazzino abbandonato, o meglio, un film che corre a perdifiato lungo quel circuito che va dal già visto alla liberazione, dall'obbligo contrattuale con la sceneggiatura alla possibilità di uno scarto al lato. Lo script gioca su un terreno già ampiamente battuto e la regia di Berger si districa abilmente tra le convenzioni. Parte come fosse in un film dei Dardenne, con l’obiettivo ossessivamente incollato al giovane protagonista, per poi distendersi in un ritmo più controllato, intimo e poetico. Non sembra voler andar oltre i problema della storia.

E così il vero grande cuore del film diventa il piccolo Ivo Pietzcker, che con una grinta notevole, ostinata, riesce a dare al suo personaggio una prontezza pratica sorprendente e una concretezza adulta. E, in effetti, il povero Jack le tenta proprio tutte per garantire la sopravvivenza a sé e al fratello Manuel e per ritrovare l'amata madre, molto più che distratta (altro grande classico). Quasi fosse un corpo resistente (e se fossero proprio i bambini gli ultimi corpi “veri” rimasti al cinema?), una specie di ultimo eroe action costretto ad attraversare i pericoli della città per mettersi in salvo. Tra parchi, periferie, centri commerciali, budelli di condomini, si materializza una Berlino inaspettata. Il film si apre ad altro e la metropoli si trasforma finalmente in un imprevisto set avventuroso, percorso in lungo e in largo, nei suoi più angoli remoti, da questo last kid standing.

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