BERLINALE 64 – Stratos, di Yannis Economides (Concorso)
Un film di una densità morale sempre più ignota a un mondo di moralisti. Economides si perde in curve ampie, insegue la strada dell'asino. Ma è quello che gli serve a riportare il genere a una necessaria dimensione politica, a inquadrare un mondo ridotto sul lastrico
Mi sento un mostro
mi sento un mostro
Tutto è indefinito. Una Grecia qualunque, livida e desolata. E un personaggio taciturno e inespressivo, Stratos, killer di giorno e operaio di un panificio industriale di notte. O viceversa. Di lui, come da buona regola noir, non sappiamo nulla. Ma a poco a poco emergono un quadro e una storia a partire dai suoi instancabili giri e dalle assurde conversazioni in cui viene coinvolto da chiunque incontra. Secondo un lento processo induttivo, che a tratti ricorda il metodo del cinema di Ceylan… Comunque, Stratos raccoglie soldi per finanziarie l'evasione di Leonidas, l'uomo che, anni prima, in carcere, gli aveva salvato la vita. Ma l'onore e la lealtà sono garanzie di alienazione. Tutto precipita. Ma solo quando si rende conto di star perdendo l'unica cosa che lo tiene ancora legato a un'idea di umanità e speranza, Stratos decide di agire.
Ecco, tutto qui, come se fosse poco. E dal timidissimo applauso che ha segnato la fine della proiezione stampa di quest'ultimo grande film di Yannis Economides, già immaginiamo cosa verranno a dirci. Che è tutto già visto (ma da quale prospettiva, della storia?), che non c'è nessuna trovata sorprendente (come se non fosse ormai una sorpresa accettare l'inevitabile), che la scrittura si aggroviglia. O forse che il protagonista, Vangelis Mourikis, è monocorde, come lo stile lento, ben al di sotto delle vibranti invenzioni estetiche degli Autori più duri e innovativi. O chissà cos'altro. Magari saranno le stesse persone che, solo qualche giorno fa, si spellavano le mani per l'innocuo Nymphomaniac. Ma la verità è che Stratos ha una densità morale, che sembra sempre più rara oggi che imperano i moralisti. Una lucidità desolata e lancinante, che ricorda il Kitano yakuza e riporta a Jean-Pierre Melville, alle coperture tragiche de Le doulos e ai supremi silenzi de Le samouraï.
Stratos è davvero inespressivo come Costello, pur non essendo un automa meccanico che si proietta in un'immagine di morte. Fino alla scelta finale, è una vittima, più che un assassino. To mikro psari, il pesce piccolo, come dice il titolo greco. E i suoi occhi (da pesce) non sono di ghiaccio, sono smarriti, increduli. Sono lo specchio, controcampo dell'assurdità del mondo che lo circonda. E in questo senso diventano fondamentali, pur se magari troppo insistite, le incredibili scene in cui deve assistere all'esplosioni logorroiche dei suoi interlocutori.
Certo, a Economides manca quella radicale consapevolezza estetica capace di trasformare il genere in un'idea metafisica ed esistenziale. Eppure non cede di un passo alle soluzioni comode, accattivanti, veloci, alle infatuazioni estetiche del cinema truccato. Mostra quello che va mostrato, senza soffermarsi un istante di troppo, e tace il resto. Non insegue traiettorie cartesiane, ma si perde in curve ampie, secondo la strada dell'asino. Ma è proprio quello che gli serve a inquadrare il contesto. Perché, è chiaro, quel che preme di più a Economides è riportare il genere all'esatta e necessaria dimensione politica di una Grecia distrutta e in fiamme. Tutta la tragedia che Stratos vede davanti a sé è quella di un mondo ridotto sul lastrico. E il suo silenzio non è un giudizio. È un grumo di furore, orrore e pietà.