BERLINALE 64 – The Midnight After, di Fruit Chan (Panorama Special)


Chan regala a Lam Suet e Simon Yam duetti totalmente alla deriva di pura comicita’ corporea, due immense maschere capaci di sostenere un’inquadratura per un tempo virtualmente infinito, ma poi tiene in piedi un film dalla struttura decisamente sgangherata e allegramente sconclusionata con i sapienti trucchi da esperto frequentatore dell’horror piu’ sensazionalistico, virando per un’assurda coda finale con pazzesco inseguimento onirico

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L’incipit e’ dalle parti di un action hongkonghese di quelli a velocita’ impazzita, illuminati dalla scia perenne dei neon che brillano nella notte di Temple Street: sono le tre del mattino ma le strade sono affollate di persone, ognuna lanciata nei propri traffici. Lam Suet, il corpulento caratterista dei film di Johnnie To, riceve una telefonata e deve muoversi dalla sala da gioco dove va sperperando banconote: a lui, autista di autobus di linea, e’ stata assegnata la corsa notturna da Mongkok a Tai Po. Su quel mezzo pubblico si incroceranno le traiettorie folli di una serie particolarmente clownesca di personaggi, capitanati dalla gloria di Hong Kong Simon Yam: Fruit Chan li sistema tutti nell'abitacolo, e poi fa sparire la citta’, facendone gli unici superstiti di una sorta di apocalisse dell’uomo, che ha lasciato pero’ intatti gli spazi e i luoghi della metropoli, ora interamente disabitati. Le reazioni del pittoresco coro di personaggi saranno le piu’ disparate, tra l’estremo razionalismo, l’ipotesi mistica, e i poco di buono che vedono solo un’occasione per lanciarsi nei peggiori crimini, con la certezza presunta di restare impuniti.

Fruit Chan sembra addirittura provare sul serio ad imbastire un plot di quelli a scatole cinesi cari alla narrazione quantistica contemporanea, con sbalzi temporali e flashback incrociati, ipotesi di complotto (i giapponesi e Fukushima?), entita’ misteriose che muovono le fila nell’ombra, nascoste da maschere antigas tra le vie della citta’ deserta: pero’ quando la voce che si esprime in alfabeto morse attraverso i fischi stridenti del telefono sta in realta’ dettando una strofa di Space Oddity, e appena i personaggi colgono il riferimento si mettono a cantare in coro il pezzo di Bowie con tanto di countdown, allora e’ evidente che da queste parti Damon Lindelof o Jonathan Nolan non ci sono mai passati, per fortuna.
Chan regala a Suet e Yam duetti totalmente alla deriva di pura comicita’ corporea, due immense maschere capaci di sostenere un’inquadratura per un tempo virtualmente infinito, ma poi tiene in piedi un film dalla struttura decisamente sgangherata e allegramente sconclusionata con i sapienti trucchi da esperto frequentatore dell’horror piu’ sensazionalistico (spaventi vari e resurrezioni reiterate, corpi che si carbonizzano a vista, arti mozzati, coltellate e teste esplose), virando per un’assurda coda finale con un inseguimento onirico con alcune delle piroette esplosive piu’ circensi tra automezzi mai viste al cinema.

Il pazzesco patchwork di generi che possono permettersi al mondo davvero unicamente questi imprevedibili blockbuster hongkonghesi, e forse l’industria di Bollywood, permette pero’ al regista di inserire una sospensione di crudelta’ assoluta e un lucidissimo pensiero sull’uomo all’interno di questa giostra divertita di esagitazione formale (l’intero apparato del film e’ saturatissimo) e performativa (il cast e’ pieno di beniamini del giovane pubblico cinese, popstar e simili): e ad un tratto tutto il gioco si ferma quando il gruppo di sopravvissuti attuera’ la propria terribile punizione sul balordo che tra di loro si e’ macchiato di una violenza intollerabile. Si fa sul serio per dieci minuti, poi non e’ detto che quel personaggio giustiziato non possa tornare in vita per venire riaccettato totalmente dalla comunita’…

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