BERLINALE 64 – Things People Do, di Saar Klein (Panorama Special)


Esordio alla regia per il montatore di Terrence Malick e Doug Liman: anche stavolta l’aspetto migliore di un film dall’estetica decisamente codificata come questo è l’attenzione per lo scenario, siamo in quartiere semidisabitato di villette prefabbricate ad Albuquerque, nel New Mexico, in cui il protagonista lotta disperatamente per dare i canonici raggi di sole all'infanzia dei figli suoi e di Vinessa Shaw

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La metafora, di quelle come si suol dire “borghesi”, è anche particolarmente dichiarata: nella piscina in giardino della famiglia del protagonista Wes Bentley è facile scorgere il simbolo di un benessere oramai assestato, la conquista di una serenità di pomeriggi passati a giocare in acqua con i due figli e la bella moglie Vinessa Shaw. Chiaramente, si tratta di una felicità di facciata, che da un momento all’altro può far mutare la piscina in una maledizione economica, da svuotare nel deserto per farlo rifiorire, o dentro cui immergersi per scorticare via i propri peccati dalla pelle ustionandosi con il disinfettante che si va sciogliendo nell’acqua. Va da sé, alla fine la piscina sarà da ricoprire, seppellire, trasformare in un bel manto erboso: il ciclo è completo, ma non è detto che i bambini non possano imparare ad amare anche questa nuova versione del giardino di casa, faticosamente strappato alla bramosia disumana della banca.
Vinessa Shaw, fantastica madre da infanzia malickiana, osserva dalla finestra come un fascio di luce che “brucia” l’obiettivo in una delle tante inquadrature dedicate al cielo terso di Albuquerque: se questa volta non parliamo di maniera è perché l’aggettivo di cui sopra non è casuale, dato che Saar Klein, alla prima regia, viene dal reparto montaggio de La sottile linea rossa e The new world (è anche l'editor prediletto da Doug Liman, tra i produttori di questo esordio), e dunque questa natura ingiallita del New Mexico sa bene come trasformarla nel paesaggio morale a dialogo con la storia di una deriva sempre più nera.

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Anche stavolta l’aspetto migliore di un film dall’estetica decisamente codificata come questo è l’attenzione per lo scenario, quello di queste tristissime villette prefabbricate piazzate nel nulla e in gran parte disabitate o utilizzate per incontri fortuiti di sesso nascosto o a pagamento, in cui il regista fa muovere il suo personaggio di rapinatore improvvisato e per necessità (la bella sequenza notturna del gesto di pietà nei confronti del cane randagio morente, con parallela scoperta della pistola ereditata dal padre): l’ennesima straniante colonna sonora country per nonluoghi come le sale da bowling e i discount, e personaggi di contorno decisamente potenti (lo sbirro alcolizzato Jason Isaacs, il suocero bastardo Keith Carradine, la bellissima Haley Bennett)…eppure la questione etica resta soltanto sfiorata, il dilemma tremendo che Klein introduce nell’ultimo atto, che sarebbe piaciuto a Ken Loach o a Robert Guédiguian (mandare in galera un delinquente pur sapendolo innocente del crimine per cui è condannato al posto di chi, brava persona che ha sbagliato, così la farà franca), viene utilizzato come espediente per un finale aperto e sospeso senza venire realmente affrontato.

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