BERLINALE 65 – Taxi, di Jafar Panahi (Concorso)

Film stills
Gli espedienti ogni volta diversi con i quali il cineasta aggira la sua condizione attuale di autore clandestino assumono la statura della rivincita di una dimensione produttiva grande quanto una memory card e uno smarphone, e l’imprescindibilita’ di una lezione avanguardista sulla pratica del set inventato, scovato, sul movimento continuo come unica salvezza, anche apparente

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Film stillsLa domanda su dove si trova oggi il cinema accoglie negli ultimi film “clandestini” di Jafar Panahi una delle riflessioni piu’ alte e necessarie del pensiero contemporaneo. La risposta di questo suo nuovo lavoro sembra essere: “sul cruscotto della tua macchina”.
Piu’ che far assomigliare allora il film ad uno degli esperimenti tutti nell’abitacolo di un’auto di Kiarostami, Jarmusch e cosi’ via, Taxi di Panahi sembra inconsapevolmente riprendere una riflessione cara al Michel Gondry di The we and the I.

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L’I, l’io-occhio, e’ qui quello dello stesso Panahi, oramai unico protagonista possibile delle sue opere “rinchiuse”, che si improvvisa tassista per le strade di Teheran: una mattinata passata a raccogliere passeggeri, amici, parenti, tutto ripreso con una piccola videocamera attaccata al cruscotto del mezzo.
Le storie, che si fanno We, quelle vengono da se’, e sembrano ancora una volta prediligere la via della metafora, della dichiarazione d’intenti, dell’autobiografia dolente nascosta dal cipiglio situazionista come nel precedente, meraviglioso Closed Curtain.
Si va dall’uomo incidentato che vuole fare testamento e lo affida all’obiettivo di uno smartphone che riprende le sue ultime volonta', alla piccola nipote di Jafar a cui a scuola insegnano come realizzare film “distribuibili” secondo le direttive di regime; dalla vicenda di due anziane donne con i loro pesci rossi sacri, ad una ricorrente presenza di simpatici “pirati” intenti nella vendita di dvd e cd contraffatti.

E’ chiaro come per Panahi sia ancora una volta, come almeno da Ceci n’est pas un film, in ballo la possibilita’ stessa di salvare l’espressione e la capacita’ di essere visto e condiviso propria del cinema: gli espedienti ogni volta diversi con i quali il cineasta aggira la sua condizione attuale di autore “intrappolato” assumono allora la statura della rivincita di una dimensione produttiva grande quanto una memory card e uno smarphone, e va da se’ davvero l’imprescindibilita’ di una lezione avanguardista sulla pratica del set inventato, scovato, sul movimento continuo come unica salvezza, anche apparente (in questo l’incipit che finge una inquadratura fissa per poi muoversi nel traffico, si fa da subito emblematico): “in spazi cosi’ privati, e nonostante tutte le limitazioni, la necessita’ di creare diventa anche piu’ di un’urgenza”, dice Panahi. “Questo e’ il motivo per cui sento il bisogno di continuare a fare film sotto ogni circostanza”.

E allora quanto diventa struggente un simbolo anche “facile” come la rosa lasciata sull’inquadratura dall’avvocato che ha aiutato Jafar durante il processo, dedicata alle “persone del cinema”, e soprattutto quel finale in cui Panahi scende dall’auto e qualcuno ne approfitta per staccare la videocamera e trafugare il video: quali altre centinaia di vite avra’ ora il film, dove potra’ improvvisamente riapparire, quanto lontano potra’ essere spedito, e quanto sara’ difficile fermarne la moltiplicazione virtuale, la corsa in taxi senza neanche conoscere le strade del centro, una corsa circolare certo, ma allo stesso tempo replicabile per sempre?

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