Berlinale Generation: per guardare bisogna iniziare dall’interno

Diversi scenari esplicati da un punto di vista specifico: quello giovanile. Focus su tre titoli dell’edizione 2021 della sezione berlinese: La Mif, The white fortress, e Beans

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Cambiano i tempi e le condizioni, il contesto e i livelli di consapevolezza, ma mai i disagi e le fragilità giovanili, mai quel forte bisogno d’identità. I giovani, quelli che nessuno ascolta, le cui azioni e pulsioni spaventano, sono sempre nucleo e luce dei racconti; auto-affermazione e auto-realizzazione come battaglie, un confronto lacerante dove vengono messi in gioco l’identità e l’alienazione dal resto del mondo – ed è così che vivono i personaggi delle storie, cercando di aprire porte chiuse che spesso raschiano sul pavimento a causa delle storture dell’esistenza. Giovani che provano a vedere quel futuro gretto la cui percezione è però piuttosto imprevidente; un futuro che in realtà può essere solamente immediato, come se i progetti concreti immaginabili possono essere solo quelli più vicini; costretti a porre un limite a qualcosa che, metaforicamente parlando, non lo ha. I giovani,  dal vissuto non proprio idilliaco e derubati della leggerezza, non sono disposti all’accettazione, ed ecco che diventano degli outsider, eterni alienati. Ma questa passività apparente è un bisogno legato alla sopravvivenza di ciò che resta di quell’idealismo deluso e inappagato.

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Tre film facenti parte della sezione Generation della Berlinale 2021, che parlano di umanità e del sistema sociale attraverso la prospettiva di quei ragazzi che vivono esistenze difficili e traumatiche; una palette di personaggi che affrontano situazioni disparate, in cui cercano di far combaciare l’interno e l’esterno di loro stessi. La sezione si sviluppa in due concorsi, Kplus e 14plus in, a detta della responsabile della sezione Maryanne Redpath, “un invito aperto ad andare oltre l’ovvio, il dominante e il forte e per osservare più da vicino cosa c’è sotto la superficie”. È un approfondimento che va fatto soprattutto seguendo l’ampiezza culturale e geografica (dettaglio facente parte della Generation), in quanto i giovani di tutto il mondo pur condividendo gli stessi sentimenti non vivono le stesse identiche battaglie.
Si prende un contorno e se ne mostra l’interno: così fece a suo tempo Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, parlando della guerra fredda e i suoi effetti indesiderati sui giovani di una generazione cresciuta in un paese senza libertà, narrando solo con distanza gli avvenimenti politici, così da mettere in scena l’interno di coloro che subivano le conseguenze più critiche; e così succede in The White Fortress (Tabija) di Igor Drljača e in Beans di Tracy Deer, che si muovono in due scenari politici delicati, estenuanti e sempre attuali.

The White Fortress

Il primo titolo si concentra sulla vita del giovane Faruk e della ragazza di cui si innamora, ma anche sulla Sarajevo del dopoguerra e sui resti presenti ancora oggi del clientelismo di era comunista, che hanno portato a un capitalismo non regolamentato in cui tutto il potere sociale ed economico è in mano a una nuova classe politica. Faruk vive nel fatiscente sobborgo di Sarajevo con la nonna malata e trascorre le sue giornate insieme allo zio, cercando rottami metallici da rivendere, approcciandosi così alla microcriminalità. A fare da contorno è una città sbiadita, che sostituisce il tempo in cui “tutto è stato possibile”, le opportunità e i sogni con l’oppressione dovuta alla disoccupazione giovanile, che ha contribuito all’esodo di molte persone dalla città e dal paese. Un’oppressione che priva i giovani della capacità di creare un significato e pianificare un futuro basato sulla propria espressione, e che soprattutto cerca di privarli di quel senso di ingenuo romanticismo per la vita. È a questo punto che Faruk incontra Mona, un’adolescente parte di una famiglia benestante e potente politicamente ma dalla quale cerca di fuggire; due disagi diversi ma accomunati dal desiderio di cercare quella bellezza, identità e libertà che i due non hanno mai conosciuto.

Il secondo titolo è più lontano per quanto riguarda la posizione geografica – da Sarajevo al Quebec – ma sempre vicino come tematiche. Al centro della storia c’è una ragazzina Mohawk chiamata Tekenthahkwa, soprannominata Beans, che vive con i genitori e la sorella più piccola nella riserva di Kahnawàke, in Canada. La sua vita cambia quando una protesta pacifica si trasforma in uno scontro armato dopo che le comunità delle riserve decidono di ribellarsi a un piano di espansione che trasformerebbe un’area sacra in un campo da golf, in una lotta per la rivendicazione che verrà in seguito conosciuta come Oka Crisis; una storia basata su fatti realmente accaduti in Quebec negli anni ’90, vista dalla prospettiva di una protagonista ancora bambina che inizia appena ad affacciarsi alla fase adolescenziale.
Combattuta tra il voler accontentare la madre, che immagina per lei un futuro specifico che le dia la possibilità di iscriversi in un liceo prestigioso, e le paure del padre, che la condizionano, la ragazzina non riesce a capire ciò che vuole veramente, soffrendone.
Ma è inevitabile per un giovane ribellarsi, a suo modo, e la velocità con cui questo avviene è determinata all’epoca e condizione in cui si trova. Beans, e tutti gli altri teenager come lei,   sono obbligati a crescere in fretta, a causa della violenza e dell’intolleranza, forzando una crescita che, nel migliore dei casi, li aiuterà a capire in breve tempo cosa desiderano per loro stessi.

L’adolescenza porta a scontrarsi con un mondo diverso da quello che si immagina. In alcune realtà è un conflitto armato a mettere fretta, a costringere ad una crescita precoce; altre volte è la cruda realtà della vita quotidiana, per cui certe anime non sono state protette né hanno mai avuto modo di potersi esprimere in un ambiente non tossico.
Con la stessa modalità di Ragazze interrotte di James Mangold e La classe – Entre les murs di Laurent Cantet, con un’atmosfera alla Rocks di Sarah Gavron e Diamante nero di Cèline Sciamma, è quello che succede in La mif (The fam) film svizzero del regista Frédéric Baillif (insignito del premio della giuria internazionale come miglior film al concorso “Generation 14plus” della Berlinale), in cui si intrecciano le vite di alcune ragazze che non sono state difese da chi avrebbe dovuto amarle, colpite dal peggio della vita e costrette ad affrontare i disagi che ne sono conseguiti.
Sette ragazze di origini differenti vivono in una casa residenziale per adolescenti a rischio. Cercano di superare le proprie disgrazie e si fanno forza tra loro, diventando una sorta di famiglia; “un istituto” che è sia una famiglia di fatto per chi vive lì che luogo amaro che porta a una serie di conflitti. Le ragazze condividono e raccontano la crudezza delle loro vite, e a ogni storia viene dato il tempo e il giusto sentimento tanto da lasciare un’impronta.

The Fam

Il focus sono i giovani e il loro punto di vista, ma la discriminazione – razziale, sessuale e sociale –  rimane una tematica che buca lo schermo, essendo il tutto all’interno di una dimensione capace di dare spazio a una certa prospettiva ma senza mancare di raccontare cosa è successo e cosa succede. Tre film che riescono in modo realistico e autentico a esporre i tumulti e le paure adolescenziali, unendo alla perfezione i passaggi drammatici con quelli più spensierati tipici dell’adolescenza, che irrompe bruscamente diventando un motore che porta a reagire. Raccontare del passaggio all’età adulta è sempre una sfida, e sono tante quelle che diversi adolescenti di tutto il mondo devono affrontare (o hanno affrontato) e da cui saranno segnati per sempre.
É un confronto duro quello di Beans, una bambina che scopre sulla propria pelle che il mondo è capace di odiare, vedendo come il suo intero popolo – i nativi americani – sia considerato pericoloso solo per aver voluto lottare e proteggere le proprie tradizioni; il suo punto di vista permette di comprendere la profonda confusione e sofferenza che può provare una giovane non abituata all’intolleranza del mondo reale, e gli effetti che queste dinamiche politiche e sociali hanno su di lei.

È un confronto agghiacciante quello di Faruk, che addentrandosi nella criminalità scopre il suo mondo nel momento in cui viene coinvolto in un crimine molto più grande di lui: il traffico di ragazze. Per mostrare la sua dedizione, Faruk dovrebbe adescare giovani donne per la prostituzione; ma da subito, grazie anche alla sua relazione sentimentale con Mona, dove viene a contatto con quel senso di amore di cui è stato privato dalla situazione politica e sociale che lo circonda, la sua missione inizia a perdere stabilità.
Faruk e Mona non dovrebbero mai incontrarsi a causa del loro ceto sociale totalmente diverso: lui è il relitto di qualcosa che non c’è più, rappresenta i sogni infranti di un paese e di una generazione; lei appartiene alla nuova era, vive nella parte elegante della città e i genitori vogliono mandarla a studiare in Canada. Ma entrambi rimangono ragazzi senza vere opportunità, poiché ugualmente persi in una città dove sia i ricchi che i poveri non hanno più niente da vivere né la protezione di un paese che dovrebbe essere modello. Il film si muove infatti tra i contrasti della attuale realtà bosniaca, mescolando il passato con il presente in modo creativo, tra film partigiani e snapchat, tra macerie e modernità. Chi non ha possibilità economiche è costretto a rimanere lì e si dedica a una vita criminale; chi ha le possibilità deve però andarsene. Entrambi i ragazzi sono prigionieri di questa nuova dinamica di Sajarevo, ed entrambi sono impossibilitati a cambiare questa realtà.

Ed è un confronto spaventoso quello con un mondo in cui sono frequenti e continui gli abusi sessuali, esternati dalle ragazze di The Mif, costrette a confrontarsi con quella che è forse la realtà più cruda di tutte: ricevere il male da chi dovrebbe elargire il bene.
Vengono messi in luce anche i problemi e le carenze del sistema di assistenza: da focolare accogliente che arriva nel momento del bisogno a un nucleo ostile, velenoso, che divora l’autostima delle vittime. Adolescenti senza colpa relegate in un “sistema che viene sempre prima”: che sia un istituto pubblico, o genitori negligenti. Relazioni tossiche “o interrotte” che rimangono sempre a distanza, dietro l’angolo, come una minaccia, allo stesso modo di un conflitto armato o di una città annientata.
Tutti scenari e persone determinanti di cui però servirsi solo come escamotage per addentrarsi in quella che è la parte più interessante: esternare e mettere a confronto il tumulto giovanile traumatico dell’interno con la desolazione matusa dell’esterno.

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