#Berlinale2016 – Death in Sarajevo, di Danis Tanović

Dalla pièce teatrale di Bernard-Henri Lévy, una commistione teatro/documentario che sembra far parlare gli altri ma poi impone il suo stile. Che somiglia sempre di più a quello di Winterbottom

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Ci sono ancora gli echi della guerra nel cinema del bosniaco Danis Tanović. Dalla terra polverosa di No Man’s Land e Cirkus Columbia allo spazio apparentemente più pulito, ma ancora più chiuso, di un albergo, l’Hotel Europa di Sarajevo, dove il 28 giugno 2014 stanno arrivando alcuni delegati VIP in occasione del centenario dell’attentato a Francesco Ferdinando d’Asburgo. Ma l’albergo si trova in una precaria situazione finanziaria e rischia di finire in mano alle banche. Inoltre il personale, che non riceve lo stipendio da mesi, minaccia uno sciopero organizzato da Hatidza, una donna che lavora nella lavanderia e madre di Lamija, addetta alla reception. Nel frattempo una reporter televisiva sta facendo delle interviste. La domanda è questa: Gavrilo Princip, l’uomo che ha fatto l’attentato a Francesco Ferdinando, è un criminale o un eroe nazionale.

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death in sarajevoLe rinascite di una nazione. Sospese tra il documentario e la pièce Hotel Europa di Bernard-Hennri Lévy da cui è tratto. Con Jacques Weber che spiega gli echi di quel famoso attentato di 100 anni fa, una reporter che lascia parlare in macchina per recuperare i segni non solo della memoria ma di una nuova reinterpretazione della Storia. Tanović gioca ancora sulla contaminazione, tra realtà e la sua manipolazione nella finzione, come aveva fatto in An Episode in the Life of a Iron Picker con cui aveva vinto proprio qui alla Berlinale il Gran Premio della Giuria nel 2013. Ancora con la macchina a mano, in un attraverso dello spazio dell’hotel che viene continuamente sezionato come con un compiaciuto balletto. Che va dai movimenti del manager alle lavanderie, che passa per ben due volte davanti al coro dei bambini.

Un cinema che sembra voler far parlare gli altri, ma poi impone il suo punto di vista in una commistione sregolata ma che viene esplicitata come necessario principio formale. I personaggi sembrano venire prima degli altri, ma in realtà non è così. E il regista non gli lascia un attimo di respiro come nel caso dell’addetta alla reception che si mette a piangere. Perché deve correre e rincorrere improbabili trame noir (il pestaggio), mostrare la decadenza partendo dalle sue origini, spacciando una presunta libertà e devozione verso la pièce per un cinema che si regge molto a fatica sotto il peso della parola. Che vorrebbe provare a volare, ma che somiglia sempre di più a quello di Winterbottom.

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